Una recensione di Pier Pietro Brunelli per la rivista Pedagogika  – Segue un lungo brano tratto dal libro di Hillman , Il codice dell’anima, 1996, Adelphi, 1997.

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Dal libro: Il codice dell’anima di James Hillman,   1996 – (Milano, Adelphi, 1997).

Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa stra
da. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono. Questo libro ha per argomento quell’annuncio. O forse la chiamata non è stata così vivida, così netta, ma più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre ci lasciamo galleggiare nella corrente pensando ad altro. Retrospettivamente, sentiamo che era la mano del destino. Questo libro ha per argomento quel senso del destino. Tali annunci e tali sensazioni determinano una biografia con altrettanta forza dei ricordi di violenze terribili; solo che quegli enigmatici momenti tendono a essere relegati in un angolo. Le nostre teorie, infatti, danno la preferenza ai traumi, e al compito che essi ci impongono di elaborarli. Ma, nonostante le offese precoci e tutti i “sassi e i dardi della oltraggiosa sorte”, noi rechiamo impressa fin dall’inizio l’immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili. Questo libro ha per argomento la potenza di quel carattere. Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione “traumatica” degli anni infantili, la messa a fuoco dei nostri ricordi o il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia sono a priori contaminati dalle tossine di tali teorie. E’ possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparata a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili , bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male. Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura. Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei gorghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino. Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia. Quell’immagine innata è anch’essa l’argomento di questo libro, così come è l’argomento di ogni biografia – e nelle pagine seguenti ne incontreremo molte, di biografie. Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il suo abbandono alle terapie del Sé. Chi è in terapia, o è comunque toccato dalla riflessione terapeutica sia pure diluita nel bagno di lacrime delle confessioni in diretta TV, è alla ricerca di una biografia soddisfacente: Come posso mettere insieme in un’immagine coerente i pezzi della mia vita? Come posso rintracciare la trama di fondo della mia storia? Per scoprire l’immagine innata dobbiamo accantonare gli schemi psicologi generalmente usati – e per lo più usurati. Essi non rivelano abbastanza. Rifilano le vite per adattarle allo schema: crescita come sviluppo, una fase dopo l’altra, dall’infanzia attraverso una giovinezza tormentata fino alla crisi della mezza età e alla vecchiaia, e infine alla morte. Mentre procedi, un passo dopo l’altro, attraverso una mappa già tutta disegnata, ti ritrovi su un itinerario che ti dice dove sei stato prima ancora che tu ci sia arrivato, o nella media di una statistica calcolata da un attuario per conto di una compagnia di assicurazioni. Il corso della tua vita è stato descritto al futuro anteriore. Oppure, invece della prevedibile autostrada, sarà il “viaggio” fuori dagli itinerari battuti, in cui si accumulano e si scartano episodi senza un disegno, e gli eventi sono frantumati come in un curriculum vitae organizzato esclusivamente sulla base della cronologia: prima ho fatto Questo, poi Quest’altro. Una vita simile è come una narrazione priva di trama, tutta imperniata su una figura centrale sempre più tediosa, “io… io… io”, che vagola nel deserto dei “vissuti” senza più linfa. Io dico che siamo stati derubati della nostra vera biografia – il destino iscritto nella ghianda – e che entriamo in analisi per riappropriarcene.