Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino L'Angelo custode

Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino
L’Angelo custode

Poi, gradualmente, mi sentii come se mi fosse stato addossato il peso di un compito, la cui natura non avrei potuto spiegare se non dicendo: “Devo pensare”. A che cosa non sapevo, ma, quasi ubbidendo a quel comando, rimasi in silenzio, con la mente assorta”. Il filosofo che avrebbe concepito importanti opere di metafisica, estetica, religione e storia era stato chiamato e, a otto anni, incominciò a esercitarsi a “filosofare”. Suo padre gli aveva fornito i libri e la possibilità di consultarli, ma era stato il daimon a scegliere quel padre ed era stata la curiosità del daimon ad allungare la mano verso quel libro. Manolete bambino non lasciava affatto prevedere il futuro torero. L’uomo che avrebbe innovato radicalmente lo stile e l’idea stessa di corrida da bambino era timido e pauroso. 8 “Delicato e di salute cagionevole (a due anni per poco non era morto di polmonite), al piccolo Manuel interessava soltanto dipingere e leggere. Se ne stava sempre in casa, attaccato alle sottane della mamma, tanto che la sorella e gli altri bambini lo prendevano in giro per questo. Al suo paese lo ricordavano come “un ragazzino esile e malinconico, che vagava per le strade, dopo la scuola, perduto nei suoi pensieri. Raramente si univa agli altri ragazzi per giocare al calcio o alla corrida”. Le cose cambiarono “verso gli undici anni: allora nient’altro contava per lui se non i tori”. Una trasformazione davvero radicale! Alla sua prima corrida, Manolete, che aveva da poco smesso i calzoni corti, resiste a piè fermo – anzi, viene ferito all’inguine, ma non vuole parlare e non vuole essere accompagnato a casa, dalla mamma; ritornerà insieme agli altri ragazzi. Si è costellato l’Eroe. Dalla sua ghianda, lo chiama un qualche mito eroico. Aveva sempre avuto sentore della sua vocazione? In tal caso, è naturale che da piccolo Manolete avesse paura e si aggrappasse alla madre. (Le “sottane della mamma” erano una metafora, o non le stava già usando come la cappa del torero?). E’ naturale che si tenesse alla larga dalle corride tra ragazzi, in strada, rifugiandosi in cucina. Come avrebbe potuto un bambino di nove anni guardare in faccia il suo destino? Nella sua ghianda c’erano tori neri di molte tonnellate e dalle corna come rasoi che lo caricavano e tra essi Islero, il toro che lo squarciò dall’inguine alla pancia, dandogli la morte a trent’anni e il più grande funerale che la Spagna avesse mai veduto. Collingwood e Manolete illustrano un dato fondamentale: le fragili competenze di un bambino non sono all’altezza delle richieste del daimon. I bambini sono intrinsecamente più avanti rispetto a se stessi anche se a scuola prendono brutti voti e rimangono indietro. Una possibile strada è quella di spiccare la corsa, come il piccolo Mozart e gli altri cosiddetti bambini prodigio, che hanno la fortuna di avere una guida valida. Un’altra consiste nel tirarsi indietro e tenere a bada il daimon, come faceva Manolete nella cucina di sua madre. L’«impeto di ribellione» che assalì Collingwood era la reazione alla sua inadeguatezza; il bambino di otto anni non era all’altezza di Kant, ma Kant era “affar suo”, una cosa che lo “riguardava personalmente”. Una parte di Collingwood era troppo sprovveduta per decifrare il significato del testo; un’altra parte non aveva otto anni, non era mai stata un bambino. Altri due esempi simili illustrano lo scarto tra le capacità del bambino e i bisogni del genio. Il primo riguarda la pioniera della genetica Barbara McClintock, il secondo il famoso violinista Yehudi Menuhin. Riferisce Barbara McClintock (ricevette il premio Nobel per le sue ricerche, che richiedevano il tipo di riflessione solitaria e di manualità che a lei procuravano il piacere più profondo): “Quando avevo cinque anni, chiesi che mi regalassero degli attrezzi. Mio padre mi comperò degli attrezzi adatti alle mie mani, non attrezzi da adulti … ma non erano quelli che volevo io. Io volevo attrezzi veri, non dei giocattoli”. Anche Menuhin voleva cose che le sue mani non erano in grado di adoperare. Il piccolo Yehudi, quando non aveva ancora quattro anni, sentiva spesso, seduto con i genitori in galleria al Curran Theatre, gli assolo del primo violino Louis Persinger. “Durante uno di questi concerti, chiesi ai miei genitori di regalarmi per il mio compleanno un violino e Louis Persinger come maestro”. Convinto di esaudire così il suo desiderio, un amico di famiglia gli regalò un violino giocattolo, di metallo, con le corde di metallo. “Io scoppiai in singhiozzi, scaraventai l’oggetto per terra e non lo volli vedere mai più”.  Poiché il genio non è limitato dall’età, dalla taglia, dall’istruzione o dall’esercizio, tutti i bambini nutrono un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca. E allora: il bambino è narcisistico, vuole attirare l’attenzione, ha fantasie di onnipotenza; per esempio, vuole attrezzi e strumenti che non è in grado di maneggiare. Ma da dove viene l’onnipotenza infantile se non dalla grandiosità della visione che accompagna l’anima in questo mondo? I romantici avevano capito l’intrinseca grandiosità del bambino. Non hanno forse detto: “E veniamo al mondo lasciandoci alle spalle una scia di gloria”? Le mani di Barbara non erano capaci di sollevare un pesante martello e le braccia di Yehudi erano troppo corte e le dita non avevano l’estensione sufficiente per un violino della misura grande, ma la sua visione lo era, di misura grande, per poter contenere la musica che aveva in testa. E doveva assolutamente avere il violino immaginato, perché Menuhin sapeva “istintivamente, che suonare voleva dire essere”. Notiamo, qui, che il daimon del piccolo Yehudi rifiutava di essere trattato come un bambino, nonostante il bambino in carne e ossa avesse solo quattro anni. Fu il daimon a fare il capriccio, a pretendere la cosa vera, perché suonare il violino non era divertirsi con un giocattolo. Il daimon non vuole essere trattato come un bambino; non è un bambino, nemmeno un bambino interiore: anzi, può essere molto insofferente di questa contaminazione, di questa incarcerazione dentro il corpo immaturo di un bambino, di questa identificazione tra la sua visione perfetta e un imperfetto essere umano. L’insofferenza ribelle è, come dimostra l’esempio di Yehudi Menuhin, una caratteristica primaria del comportamento ispirato dalla ghianda. Se esaminiamo l’infanzia della scrittrice francese Colette, scopriamo che anch’essa era affascinata dagli attrezzi del suo mestiere. A differenza del destino di Menuhin, che scattava come una tigre, il suo, più simile a un gatto francese che sonnecchia sul davanzale, stava in attesa sornione, procrastinando la propria necessità di scrivere con l’osservazione dei tentativi paterni. Un po’ come Manolete, Colette si tirava indietro – per proteggersi, forse? Come lei stessa racconta, l’avversione nei confronti della scrittura la salvaguardò da un inizio troppo precoce, quasi che il suo daimon non volesse che lei cominciasse prima di essere pronta ad accogliere il suo dono, prima di aver letto, letto tanto, e prima di aver vissuto e imparato ed esercitato tutti i sensi, l’odorato, il tatto. La scrittura, con i suoi tormenti, non avrebbe comunque tardato, grazie a Dio, ad affliggere la sua vita, ma Colette doveva prima assorbire la materia sensuosa da immettere nei suoi scritti. Non soltanto gli eventi percepiti che penetravano nella sua sensuosa memoria, ma la materia stessa, palpabilissima, del mestiere di scrivere nella sua fisicità. Benché avesse ripudiato le parole, infatti Colette provava una vera avidità per i materiali della sua vocazione. “Un sottomano di carta assorbente vergine, un righello di ebano, una, due, quattro, sei matite di vari colori appuntite col temperino; penne per il tondo e per il corsivo, penne da contabile, penne da disegno non più grandi di una piuma di merlo; ceralacca per sigillare, rossa, verde, viola, un tampone assorbente, una boccetta di colla liquida, priva di quelle macchie color ambra che spesso ne guastano la trasparenza; il minuscolo brandello di un cappotto militare, ridotto alle dimensioni di un nettapenne coi bordi dentellati; un grande calamaio affiancato da uno più piccolo, entrambi di bronzo, e una ciotola di lacca piena di polvere d’oro per asciugare l’inchiostro; un’altra ciotola contenente ostie di tutti i colori per sigillare (quelle bianche le mangiavo); sulla destra e sulla sinistra del tavolo, risme di carta vergata, rigata, filigranata…”.  Se Menuhin sapeva esattamente quello che voleva: suonare il violino; Colette sapeva con altrettanta certezza quello che non voleva: scrivere.