Hugo Simberg - L'angelo ferito, 1905-06

Hugo Simberg – L’angelo ferito, 1905-06

A sei anni sapeva già leggere bene, ma non voleva assolutamente imparare a scrivere: “No, scrivere no. Non volevo scrivere. Quando si sa leggere, quando si può penetrare nel regno incantato dei libri, che bisogno c’è di scrivere? — da giovane, io non ho mai, mai, provato il bisogno di scrivere. No, non mi alzavo di notte in gran segreto per scribacchiare poesie sul coperchio di una scatola di scarpe! No, non ho mai inviato parole ispirate al Vento dell’Ovest e neppure alla luna! No, tra i dodici e i quindici anni non ho mai preso bei voti nei temi. Perché avevo la sensazione, di giorno in giorno più intensa, di essere fatta, appunto, per non scrivere. Ero l’unica della specie, l’unica creatura venuta al mondo allo scopo di non scrivere”. Ricapitoliamo quello che abbiamo appreso finora sul modo in cui il destino tocca l’infanzia. Nel caso di Collingwood, come un’inattesa annunciazione; nel caso di Manolete e di Colette, come un’inibizione che li induce a ritrarsi. In McClintock, Menuhin e Colette si nota inoltre il desiderio ossessivo di possedere gli strumenti materiali che rendono possibile il suo realizzarsi. E abbiamo visto la discrepanza che esiste tra il bambino e il daimon. Soprattutto, abbiamo imparato che la chiamata si fa sentire nei modi più strani e diversi da una persona all’altra. Non esiste un modello generale, ma solo uno specifico per ciascun caso. Tuttavia, il lettore con un orecchio freudiano esercitato avrà individuato un fattore comune, la presenza massiccia di padri – il padre di Collingwood, il padre di McClintock, di Menuhin, di Colette! Come se le facilitazioni, eventualmente offerte dal padre influissero sulla vocazione del figlio. Questa “superstizione parentale”, come vedremo nel capitolo così intitolato, è difficile da evitare. La fantasia dell’influenza dei genitori sull’infanzia ci segue per tutta la vita, anche quando i genitori in carne e ossa si sono da un pezzo ridotte e fotografie sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall’idea di tale potere. Perché restiamo attaccati alla superstizione parentale? Come mai questa idea continua a farci da padre e da madre, ci conforta? Abbiamo forse paura di lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiamo in cucina? Ci ritraiamo in spiegazioni che coinvolgono i genitori, piuttosto che affrontare le pretese del destino. Se Colette ebbe l’agio di procrastinare il proprio destino, o di riconoscerlo indirettamente, grazie all’intensità della propria resistenza, Golda Meir, primo ministro di Israele dal 1956 alla guerra del Kippur, fu spinta in prima linea dal proprio quando faceva la quinta elementare a Milwaukee. Golda organizzò un gruppo di protesta contro l’adozione nella scuola di libri di testo troppo costosi per i bambini poveri, i quali si vedevano così negato di fatto il diritto allo studio. Quella ragazzina di undici anni (!) affittò una sala per tenervi un’assemblea, raccolse fondi, organizzò le compagne, addestrò la sorellina a recitare una poesia socialista in yiddish e infine tenne un discorso all’assemblea. Non era già un capo di stato laburista? La madre aveva insistito perché si scrivesse il discorso da leggere in pubblico, ma, ricorda Golda Meir, “a me pareva che avesse più senso dire lì per lì quello che avevo da dire, parole di testa mia”. Non sempre il futuro arriva in maniera così esplicita. Golda Meir, donna risoluta e portata al comando, uscì direttamente allo scoperto. Più o meno alla stessa età Eleanor Roosevelt, anch’essa donna risoluta e portata al comando, faceva il suo ingresso nel mondo del suo futuro non con l’azione, bensì rifugiandosi in fantasticherie. Eleanor Roosevelt definì se stessa da piccola “una bambina infelice” e i suoi anni infantili “giornate grigie”: un modo di esprimersi a dir poco minimizzante e ben educato, se pensiamo a quello che aveva dovuto passare. “Vivevo con la paura costante della follia”. Prima dei nove anni aveva già  perduto la madre, che non le aveva mai voluto bene, un fratello minore e il padre, un uomo frivolo e mondano. «E’ una bambina così strana, sembra una vecchietta, noi la chiamiamo sempre ‘nonnina’». Dai cinque anni, se non da prima, la naturale riservatezza si accentuò; Eleanor diventò più cupa, ostinata, scontrosa, acida e inetta (a sette anni ancora non sapeva leggere, e non era capace né di cucire né di cucinare, come ci si aspettava dalle ragazze del suo ambiente sociale). Diceva bugie, rubava; quando era in compagnia, faceva scenate da bambina asociale. Le diedero un precettore, che le dava lezioni e le imponeva la disciplina, e per il quale provò “un odio che durò per anni”. Intanto “mi inventavo, giorno per giorno, una storia che era la cosa più reale di tutta la mia vita”. Nella sua storia, Eleanor si immaginava di vivere con il padre, dirigendo per lui la sua grande casa e accompagnandolo nei suoi viaggi. La storia andò avanti per anni, anche dopo che il padre era morto. Oggi, il suo caso richiederebbe una terapia, diventerebbe “il caso di Eleanor R.”. Oggi, magari parallelamente a una terapia sistemica della famiglia, Eleanor sarebbe quasi certamente trattata con l’armamentario di psicofarmaci della biopsichiatria, confermandole così, con la forza di un dato biologico, la sensazione di essere “una bambina cattiva”. (La cattiveria devo averla nelle cellule, come un peccato originale, o come una malattia. Perché, altrimenti, mi darebbero queste pillole per farmi guarire, come quando ho la febbre o il mal di pancia?). Alle sue complesse fantasticherie non verrebbe attribuito alcun valore intrinseco di manifestazione della fantasia del suo daimon e della sua vocazione. Sarebbero ridotte a fughe nell’irrealtà al limite del delirio. Diminuendo con gli psicofarmaci l’intensità e la frequenza delle sue immagini, la psichiatria avrebbe agio di curare una mente malata, con ciò stesso dimostrando, grazie a un ragionamento circolare, come ciò che ha eliminato fosse davvero malattia. Un altro tipo di specialista, se chiamato a consulto sul caso di Eleanor R., coglierebbe un nesso tra il fantasticare giorno dopo giorno degli anni infantili e la rubrica giornalistica di commenti sulla realtà sociale che Eleanor tenne in seguito e che si intitolava “My Day”, la mia giornata. Il nostro specialista ridurrebbe il talento di Eleanor nell’immedesimarsi nei problemi di tutti gli strati sociali, il suo interesse per il benessere dell’umanità e la sua ottimistica visione a tutto campo, a una “reazione di compensazione” alle fantasie solitarie e autistiche delle giornate grigie della sua infanzia. E anche qui un padre. Anche qui, l’appiglio per scivolare in un’interpretazione freudiana: la causa sia delle grigie depressioni sia della fuga in velleitarie fantasie di onnipotenza era il suo complesso di Elettra (amore per il padre e desiderio di sostituirsi alla madre). Ma, poiché quel tipo di fantasie avrebbe potuto avere un contenuto diverso – che so: fughe magiche, patti segreti, convegni romantici, animali salvifici e nozze regali – la teoria della ghianda propone una lettura molto diversa delle fantasie della piccola Eleanor. Il loro contenuto di accudimento e di gestione organizzativa era finalizzato, era la preparazione alla vita di doveri che Eleanor avrebbe vissuto in futuro. Quelle fantasie erano inventate dalla sua vocazione e davvero erano più realistiche, da un punto di vista progettuale, della sua realtà quotidiana. L’immaginazione le faceva da maestra, istruendo la bambina per i più vasto compito di sevizio che l’attendevano: occuparsi dei bisogni di una famiglia complicata, di un marito paralizzato, dello stato di New York come moglie del governatore, degli Stati Uniti come moglie del presidente e addirittura delle Nazioni Unite. Le fantasie di occuparsi del “Padre” erano un esercizio propedeutico, in cui poter inserire la sua vocazione, l’immensa devozione al benessere altrui.