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564535_4307436880410_375267327_nEMINENTE ED ECCEZIONALE

Le storie che scandiscono questo come gli altri capitoli mostrano qual sia il punto focale di questo libro: principalmente, la nostra infanzia. E quale sia il metodo seguito: principalmente, un metodo aneddotico. E la passione che lo anima: il fuori del comune. Questa passione richiede qualche chiarimento. Ciò che è fuori dal comune rivela un’immagine ingrandita e più pregnante di ciò che è comune. Lo studio del fuori del comune a scopi di ammaestramento ha una lunga tradizione, dalle biografie dei grandi uomini dell’antichità scritte da Varrone, Plutarco e Svetonio, attraverso le vite esemplari della patristica e quelle degli artisti del Rinascimento del Vasari, fino, di qua dell’Atlantico, agli Uomini rappresentativi di Emerson. Parallela a questa tradizione è la lettura in chiave edificante di personaggi della Bibbia come Abramo, Ruth, Ester e Davide, e delle vite dei santi, tutti luminosi esempi di personalità. Contemporaneamente, la tradizione teatrale proponeva come modelli nei quali vedere rispecchiata la nostra vita personaggi fuori del comune, da Edipo, Antigone, Fedra, Amleto, Lear e Faust giù giù fino a Willy Loman. In questo libro si trovano divi del cinema, assassini e conduttori di talk show accostati a premi Nobel e uomini di Stato: questa compresenza e l’analogo spazio a essi dedicato tuttavia non vogliono sottintendere che celebrità e creatività si equivalgano. Il loro essere, tutti, personaggi eminenti illustra meglio la straordinaria potenza di ciò che chiama verso una particolare strada. Dunque, questo libro si limita a utilizzare ai propri fini i personaggi eminenti: per rendere più evidente, attraverso il loro destino, la vocazione presente anche nel nostro. Noi useremo questi personaggi come in tutti i tempi i personaggi eminenti sono stati usati dalle rispettive culture: perché mostrando ciò di cui sono stati capaci, siano di esempio per le vite comuni. Le persone fuori del comune stimolano, guidano, mettono in guardia, ergendosi, come fanno, nelle sale dell’immaginazione – statue della grandezza, personificazioni del meraviglioso e della sofferenza -, ci aiutano a sostenere ciò che ci è stato dato così come esse hanno sostenuto ciò che fu dato loro. Conferiscono alla nostra vita una dimensione immaginativa. Che è ciò che cerchiamo quando compriamo una biografia e vi leggiamo gli intimi segreti di personaggi famosi, le loro vicende, i loro errori, i dettagli pettegoli. Non per abbassarle al nostro livello, ma per elevarci al loro, per rendere meno insopportabile il nostro mondo familiarizzandoci con il loro. Senza questi esempi del daimon, non avremmo alcun’altra categoria del fuori del comune, se non la psicologia diagnostica. Queste personificazioni di un’immaginazione tesa al massimo ci accendono fin nell’anima e dell’anima sono i maestri. Non solo l’eroe con il suo culto, ma anche le figure tragiche, le dive e i comici e le vecchie megere e gli uomini di successo, ricchi e belli. L’esagerazione un po’ teatrale dei tratti di carattere tipica delle persone fuori del comune rientra nella tradizione romantica. Quando la tradizione della grandezza romantica, con il suo repertorio di pazzi, di amanti e di poeti è ridimensionata dall’egualitarismo, demolita dal cinismo accademico o definita delirio di grandezza dalla diagnostica psicoanalitica, allora quel vuoto culturale viene abusivamente occupato dalle star del pop, dagli eroi prefabbricati, dai Batman, e alla società non restano che celebrità fasulle su cui modellare la propria cultura. Dunque questo libro vuole riportare indietro di duecento anni la psicologia, al tempo in cui l’entusiasmo romantico smantellava l’Età della ragione. Voglio che la psicologia ponga le sua basi nell’immaginazione delle persone, anziché farle oggetto di calcoli statistici e di classificazioni 13 diagnostiche. Voglio che si guardi alle storie cliniche con la mente poetica, così da leggerle per quello che sono: forme letterarie del nostro tempo, e non relazioni scientifiche. Del resto, le storie di casi clinici, più che quella dei pazienti, illustrano la malattia della psicologia. Mostrano come la psicologia – e tutti siamo contagiati dal suo modo di pensare – tragga le sue conclusioni risalendo da ciò che è comune a ciò che è fuori del comune, ma cancellando bellamente il “fuori del”. Tra le epigrafi citate in apertura di questo libro, ce n’è una di Edgard Wind, uno dei maggiori studiosi dell’immaginazione rinascimentale. Vale la pena ricordarla: “Un metodo che vada bene per le opere minori ma non per quelle grandi è ovviamente partito dalla parte sbagliata … il luogo comune può essere compreso come una riduzione dell’eccezionale, l’eccezionale non può, invece, essere compreso dilatando il luogo comune. Sia logicamente sia causalmente, l’elemento decisivo è l’eccezionale, perché esso introduce … la categoria più ampia”. Se l’eccezionale è la categoria più comprensiva, allora potremo capire più cose sui recessi della natura umana studiando una persona eccezionale che non studiando un campione, per quanto ampio, di singoli casi assommati. Un unico episodio getta luce sull’intero campo visivo. Manolete in cucina che cerca di farsi piccolo per paura dei tori contenuti nel suo destino, Canetti che brandisce la scure per amore delle parole. Allora forse vedremo i disturbi infantili non tanto come problemi evolutivi quanto piuttosto come emblemi rivelatori. Ciascun frammento biografico esemplifica la tesi centrale di questo libro: c’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della propria vita. E io attaccherò senza mezzi termini le convenzioni della percezione biografica secondo la quale il nostro presente sarebbe predeterminato dal tempo e dal passato. Da quando Erodoto e Tucidide inventarono la storiografia e la Bibbia elencò le genealogie, tutto, in Occidente è raccontato in ordine cronologico. Sul tempo, ebrei e greci concordano; il tempo conta, letteralmente. Dal tempo dipende il progresso, l’evoluzione lo presuppone, le misurazioni, senza le quali non esisterebbero le scienze esatte, si basano su di esso. Le nozioni stesse di “nuovo” e di “perfezionato”, che allettano il nostro desiderio di consumatori, sono invenzioni del tempo. La ragione occidentale fatica a fermare il suo orologio. Perfino la sua vita più interna essa la concepisce come un orologio biologico, e il cuore non fa forse tic tac? Quell’aggeggio elettronico che portiamo al polso racchiude in un simbolo concreto la ragione occidentale condizionata dal tempo. In inglese, il nome stesso, watch, “orologio”, è affine ad awake, “sveglio, vigile”, e ad aware, “consapevole”. Siamo davvero convinti che tutte le cose si muovano nel tempo. Che il tempo trasporti sulla sua corrente tutto il mondo, tutte le specie e ciascuna esistenza individuale. Perciò, quando guardiamo le cose, le vediamo nel tempo. Quasi ci sembra di vedere il tempo stesso. Per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi. Allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Al pari dell’amore, il cambio di prospettiva può avere un effetto di riscatto, di redenzione, non nel senso religioso di salvare l’anima per il paradiso, ma in senso più pragmatico. Come al banco dei pegni, ci è dato qualcosa in cambio, il nostro pegno non era privo di valore come credevamo. I fastidiosi sintomi quotidiani possono godere di una rivalutazione, è possibile reclamarne l’utilità. Sintomo, nella nostra cultura, significa qualcosa di negativo. In sé, il termine indica semplicemente una combinazione (syn) di eventi accidentali, né positivi né negativi, che fonde in un’immagine più cose.
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Come il giudizio sul loro valore non deve necessariamente essere morale, così il loro campo 14 non deve necessariamente essere la medicina. In quanto eventi accidentali, il luogo dei sintomi non è innanzitutto la malattia, bensì il destino. Una volta che i sintomi, anche se esprimono sofferenza, non siano più considerati in primo luogo come qualcosa di negativo, qualcosa che non va nel bambino, allora possiamo liberare la mente dalla sua fissazione di eliminare i sintomi in un bambino. Possiamo porre fine al pervertimento dell’adagio terapeutico “Il simile cura il simile” che ci spinge a fare del male al bambino per liberarlo da quel male che è il sintomo. Se il sintomo non è una cosa cattiva, non dobbiamo più usare cattivi metodi per farlo andare via. Il terapeuta raffinato e superstizioso spesso si domanda che fine faccia il sintomo, una volta andato via. E’ scomparso davvero? Ritornerà sotto altra forma? E, adesso che non c’è più, che cosa avrà cercato di esprimere, in realtà? Questi dubbi danno la vaga sensazione che ci sia “dell’altro” nei sintomi, oltre alla loro negatività asociale, disfunzionale, penalizzante. E predispongono a cogliere nel sintomo una intenzionalità nascosta, sicché lo possiamo considerare meno ansiosamente (meno moralisticamente), non più come qualcosa che non va, bensì, più semplicemente, come un fenomeno (e fenomeno in origine significava qualcosa che appare, splende, si accende, si illumina, si offre alla vista). Il sintomo vuole essere contemplato, non solo analizzato. Una ristrutturazione della percezione: ecco a che cosa miro in questo libro. Voglio che vediamo il bambino che eravamo, l’adulto che siamo e i bambini che per qualche motivo richiedono le nostre cure in una luce che sposti la valenza da sciagura a benedizione o, se non proprio benedizione, almeno a sintomo di una vocazione.

Testo di James Hillman dal libro IL CODICE DELL’ANIMA.