Il lato oscuro scisso

Cover teatroQuesto artiticolo sviluppa una lettura della poetica di Stevenson, e in particolare de Lo Strano caso del Dott. Jekill e Mister Hyde, sulla base dell’ermeneutica junghiana intorno all’estetica e alla creatività letteraria.

Inconscio, sogno e visione sono tratti essenziali nella poetica di R.L. Stevenson. La sua opera maggiormente pregna di ‘metafore’ e ‘fatti’ psicopatologici è senz’altro il “caso di Jekyll e Hyde”, costoro rappresentano un particolare caso di doppelgänger: cioè quello sdoppiamento di personalità che, come ha rivelato Otto Rank in un suo studio specifico, ha costituito un motivo quasi ossessivo nella creatività letteraria di ogni tempo.

Il celebre racconto contiene diversi elementi per una lettura in termini psichiatrici e psicodinamici: obnubilamento della coscienza, depersonalizzazione; disturbi del sé, personalità multipla, psicosi, comportamento antisociale e psicopatia, disturbi da uso di sostanze psicoattive, e probabilmente le diagnosi potrebbero rivelare ancora ulteriori patologie del corpo e dell’anima. Considerazioni di carattere psicodinamico, secondo una prospettiva freudiana, rivelano un conflitto tra l’Ideale dell’Io – il perbenismo vittoriano del Dott. Jekyll  e l’Es  l’’altro’: il temibile Mr. Hyde, che con la sua aggressività psicopatica conduce alla pazzia e alla morte. Dal punto di vista junghiano Mr. Hyde sembra prefigurare l’emergere dell’ “Ombra”, cioè quella componente archetipica della psiche individuale e collettiva che rappresenta il ’doppio’ tenebroso e complementare della coscienza, e che se viene scisso da essa, si manifesta nelle forme del tremendum. Noi crediamo che la prospettiva junghiana sia quella che maggiormente ci consente di formulare una serie di osservazioni utili al fine di comprendere, non solo il senso simbolico del ‘Jekyll e Hyde’, ma anche la poetica del suo autore e quindi le modalità della sua creatività letteraria. Infatti, Stevenson teorizzò un’idea di creatività letteraria che è molto vicina a quella che Jung spiega nei suoi studi sull’estetica e la poesia.

Dott. Jekyll e Mister Hyde, e l’Ombra dentro di noi.L’ interiorità di ogni essere umano oltre ad avere una sua soggettività ha un corrispondente oggettivo nelle vicende di tutta la specie umana, poiché la psiche individuale è formata da elementi che sono comuni a tutti gli esseri umani, e quindi ad una “psiche oggettiva”. Di questa oggettività psichica abbiamo molteplici rappresentazioni simboliche nelle narrazioni mitiche e nelle leggende delle differenti culture. In tal senso l’ ermeneutica junghiana si fonda su una concezione della psiche che è ad un tempo individuale e collettiva.

Jung rivelò una coincidenza tematica e strutturale di motivi e immagini mitiche appartenenti a culture lontane nel tempo e nello spazio, e questa stessa corrispondenza si evince dalle visioni del sogno, della fantasia, e dalle affezioni che presentano una sintomatologia allucinatoria. Da queste osservazioni, effettuate anche attraverso scrupolose ricerche empiriche nel corso della pratica clinica, Jung elaborò le nozioni di “archetipo” e di “inconscio collettivo” .

Archetipi,’complesso individuale’ ed espressione artistica

Gli archetipi non possono essere spiegati inequivocabilmente per mezzo di categorie teoriche o di razionalizzazioni univoche dal punto di vista logico-coscienziale. Dunque gli archetipi non possono essere ‘definiti’ strictu sensu, ma solo rappresentati per mezzo di metafore, analogie e simboli. Possiamo dire che gli archetipi sono i fattori costituenti dell’inconscio collettivo, il loro modo di manifestarsi a livello individuale da luoco ai “complessi”, cioè a fattori che riguardano la soggettività dell’inconscio individuale.

Secondo Jung, ogni processo psichico, e nella fattispecie anche quello che va a costituire l’ opera d’ arte, non trae il suo impulso da un mondo interiore isolato, poiché esso è sempre collegato attraverso diverse ‘modalità complessuali’ con una energia psichica che investe l’ inconscio collettivo.

Questa dialettica psichica tra soggettività e inconscio collettivo sarebbe presente anche alla base dei processi di formazione del mito, che pur manifestandosi attraverso narrazioni e simbologie differenti nelle diverse culture, conserva cum grano salis, forme e contenuti di carattere universale.

Dunque i miti consisterebbero in narrazioni archetipiche culturalmente accettate da una certa comunità, ma tali narrazioni avrebbero una corrispondenza nella soggettività della psiche individuale, attraverso sogni, fantasie, idee e quindi anche nei processi creativi che si traducono in opere d’ arte. Possiamo in tal senso tentare di individuare i presupposti mitici o leggendari che hanno caratterizzato il successo del “Jekyll e Hyde’. Si pensi ad esempio alla figura del medico, che ha una sua origine mitica nello stregone e nello sciamano. Si pensi anche alla ‘mitologia’ delle metamorfosi, della pozione magica, dell’alterità dia-bolica dello sdoppiamento.

Per arricchire questi cenni introduttivi intorno ad una ‘estetica letteraria junghiana’ indichiamo alcuni dei principali autori che, secondo Aldo Carotenuto, ne hanno seguito in modo pertinente e significativo l’ orientamento : F.Salza per una disamina generale del pensiero di Jung in campo estetico; Neumann ha scritto su Kafka e su Trakl; Maud Bodkin ha tentato di rintracciare temi archetipici nella letteratura mondiale di tutti i tempi; Kirsch ha scritto su Shakespeare; Edinger ha scritto sul Moby Dick di Melville e sul Faust di Goethe; June Singer su William Blake; la Von Franz ha effettuato fondamentali studi sulla fiaba e in particolare su L’ Asino d’oro di Apuleio. Lo stesso Carotenuto ha poi scritto recentemente su Pasolini (1985), su Kafka (1989) e su Apuleio (1990). Per nostra fortuna disponiamo di studi ‘jun-ghiani’ direttamente collegati al soggetto della nostra indagine, anche se si tratta di osservazioni introduttive e frammentarie, quasi sempre orientate al principale racconto di Stevenson: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde; il riferimento va qui a Barbara Hannah, Mario Trevi, Robert Bly, Claudio Risé, Mirella Costa.

L’Ombra e il perturbante interiore

Sulla base delle osservazioni di Fulvio Salza sulla ‘psicologia estetica’ di Jung , riprendiamo la riflessione su alcuni passi salienti di Psicologia e poesia, dove Jung ci parla di una sorta di “essenza estranea” (fremdartidge Wesenheit) che si manifesta nell’ atto creativo come rivelazione del “unheimlich” (“perturbante”).

Per Freud il “perturbante” è il nostro passato, il rimosso che viene a turbar-ci in forme velate e non più riconoscibili, ovvero sintomi, sogni, fantasie, le quali possono anche essere oggetto di rappresentazione artistica. Ma ancora una volta Jung critica il personalismo causale della concezione freudiana dell’ arte, poiché la natura del “perturbante” avrebbe un “carattere primigenio” e “sovrapersonale”, che viene raggiunto come la “visione” di un mondo ‘altro’, che non è posseduto, ma da cui si è posseduti. Il perturbante freudiano viene così ad avere un corrispettivo filogeneticamente dilatato nell’ archetipo junghiano dell’ Ombra, in quanto aspetto inconscio, oscuro e incompatibile, della coscienza individuale di ciascuno, ma anche della coscienza di un certa fase storico-sociale della collettività.

Questa concezione dell’ Ombra, che trascende ogni modello strutturale e pulsionale dell’ inconscio, è uno dei temi junghiani che maggiormente fanno risaltare le accuse di Freud di fare capo ad una “oscura metafisica”: “la nera marea di fango dell’ occultismo”. Da queste accuse, come evidenzia Fulvio Salza, Jung si difese in modo particolare sulla base dei suoi discorsi sull’ arte e la creatività.

Creatività per esprimere ed integrare l’Ombra

Il carattere ambiguo, soggettivo e personale dell’ opera d’ arte, deve dunque farsi risalire al carattere numinoso e ‘notturno’ degli archetipi dell’ inconscio collettivo. Si tratta di un carattere primordiale, compensatorio e ambivalente rispetto della coscienza individuale e collettiva:

” […] non è né buono, né cattivo. E’ un numen moralmente indifferente che solo attraverso lo scontro con la coscienza può diventare l’ uno o l’ altro o una dualità di opposti” (p.337).

Per una riepilogazione più esauriente circa l’ ambivalente numinosità dell’ archetipo in quanto ispiratore di rappresentazioni malvagie o bonarie, riteniamo opportuno riportare la seguente chiara spiegazione di Fulvio Salza, che a sua volta riprende diverse citazioni di Jung:

Quel che interessa è che l’ opera d ‘arte, o almeno una categoria di opere d’ arte, costituisca una particolare realizzazione di questa numinosità e che questo fatto sia ricco di conseguenze sui rapporti dell’ opera stessa con l’ artista come ‘creatore’, con i lettori, con l’ epoca, con l’ artista, ancora, come persona, caricando questi rapporti delle caratteristiche del terribile, del perturbante, del rischioso. Il ‘conturbante paradosso’ della visione spinge l’ artista come autore dell’ opera all’ impiego di un ‘ materiale quasi smisurato’ per ampiezza di riferimenti o per varietà di toni ‘ da un’ inafferabile sublimità giù giù fino alle immagini perverso-grottesche’. L’ artista non può fare a meno di appoggiarsi al repertorio mitologico anche se, a questo proposito, va chiarito che si può estendere all’ opera quanto Jung dice del sogno e del disturbo mentale, e ritenere che non necessariamente il motivo mitologico compaia in essa nelle forme e nelle figure tramandate, ma si traduca e si dissimuli nel linguaggio dell’ epoca: ‘ Non si tratta più dell’ acquila di Giove, ma di un aeroplano; la lotta col drago è uno scontro ferroviario; l’ eroe che uccide il drago è il tenore del teatro comunale, la madre ctonia è una grossa erbivendola; Plutone, che rapisce Proserpina, un automobilista temerario, e così via’. Ma la mitologia, qualunque veste assuma, come del resto, tutto ciò che si può chiamare ‘ argomento’ o ‘ intreccio’ dell’ opera, non sono che maschere dell’ ‘esperienza primigenia’, o meglio strumenti che servono all’ artista per afferrarla [anche se spesso, come abbiamo visto, ciò può avvenire inconsapevolmente per via di un ‘trasporto’ simbolico] e per offrirla al pubblico in forme più accessibili .

«Se finora si pensava che l’Ombra umana fosse la fonte di ogni male, si può adesso, a un’indagine più precisa, scoprire che l’uomo inconscio, l’Ombra, non consiste solo intendenze moralmente riprovevoli, ma presenta anche una serie di buone qualità, istinti normali, reazioni appropriate, percezioni realistiche, impulsi creativi ecc. A questo livello di conoscenza, il male appare piuttosto come distorsione, deformazione, erronea interpretazione e indebita applicazione di fatti in sé naturali.» (C.G.Jung – Aion)

Dott. Jekyll o Mr. Hyde? Chi siamo?

Sulla base delle considerazioni di Jung sull’arte e sul processo creativo per meglio comprendere la poetica e l’opera di Stevenson. Si tratta dunque di evidenziare quei fattori archetipici che ad esempio hanno dato vita a Jekyll e Hyde. In prima istanza si può osservare una ‘mitica’ scissione tra il ‘buono’ e il ‘cattivo’, ma a ben vedere il ‘buono’, cioè il Dott. Jekyll, è piuttosto una maschera della bontà, egli infatti rappresenta il perbenismo dell società vittoriana, enfatizzato dal ruolo di medico dalla condotta ineccepibile. In tal senso i fattori archetipici che possiamo individuare sono quelli della “Persona” e dell’”Ombra”. Di questa abbiamo già dato qualche cenno, della “Persona” diciamo che per Jung essa consiste nella facciata’ dell’ Io, nel suo modo di presentarsi agli altri, ma anche a se stesso. In questo senso la Persona è una ‘maschera’ conscia e inconscia che qualora dovesse irrigidirsi, può risultare disfunzionale e disturbante per il soggetto. Dunque Jekyll sarebbe la “Persona” (dal latino ‘maschera’), che si traveste nella moralità, e Hyde è l’Ombra che si ribella alla rigidità della persona e scatena tutta la sua irruenza pulsionale repressa attraverso atti abietti e raccapriccianti.

Ma anche altri personaggi e vicende dell’ opera di Stevenson si manifestano come contrasto tra moralità e malvagità, senza però che risulti evidente un netto confine tra giusto e ingiusto, con un’apertura verso una visione della vita e del mondo che risulta essere ‘al di là del bene e del male’. Questo disinvolto superamento della morale, caratterizza tutta la poetica stevensoniana.

Visioni avventurosamente cupe, che affascinano proprio in virtù della loro capacità di rappresentare ed esorcizzare gli aspetti d’ombra che dai personaggi riverberano nella solitaria coscienza del lettore. Cose di cui pubblicamente non si parla, ma di cui tutti sanno, poiché sono nascoste dentro la vita di ciascuno, seppure sotto forme diverse, segreti, fantasie, morbosità, che i personaggi stevensoniani rivelano tutt’ a un tratto, come se fossero posseduti da un demone ribelle. L’ opera di Stevenson stimola il lettore che viene catturato dal compiacimento liberatorio di potersi confrontare con qualche lato oscuro della sua anima, che risuona assieme a quella più o meno macchiata di personaggi, che pur essendogli estranei, gli sono stranamente simili.

 La poetica di Stevenson per ‘dialogare con il male’ 

Stevenson appartiene a quel complesso movimento che reagisce al naturalismo e al positivismo. L’originalità della sua posizione è determinata dall’equilibrio tra una fantasia fervida e uno stile asciutto, chiaro, preciso. La sua fortuna però non può essere attribuita solo all’uso quasi virtuosistico del mezzo espressivo. Il nucleo della sua opera è morale. Il suo rifiuto della società vittoriana non si risolse semplicemente nell’evasione in altri luoghi e tempi. Stevenson espresse importanti fenomeni e problemi in una forma mitico-simbolica che nasconde la sua profondità dietro una rutilante suggestione di immagini narrative. Nella sua opera c’è una grande profusione di immagini che in qualche modo rapiscono immediatamente l’attenzione del lettore, dandogli l’illusione di essere al cospetto di un grande affabulatore: “Tusitala” (nome che a Stevenson avevano dato gli indigeni di Samoa : ‘colui che racconta storie’). In questo stato di incantamento, viene celato il nucleo morale della narrazione, che in tal modo non incombe con una logica di principi assolutizzanti ad appesantire la grazia del racconto. Come bambini che ascoltano la fiaba intorno al fuoco, così i lettori di Stevenson vedono trascorrere mille avventure, che sottintendono un significato della vita che incita a respirare più liberamente e a pensare con più agio, muovendosi in uno spazio di conoscenza meno costretto da pregiudizi e che promette una maggiore saggezza.

La grande tolleranza di Stevenson per quanto attiene ai limiti della natura umana, ed una posizione sospettosa verso atteggiamenti ‘eroici’, viene ben enfatizzata nel suo Discorso di Natale :

“E’ probabile che quasi tutti coloro che pensano come debbano comportatrsi ci pensino troppo; certo che noi tutti pensiamo troppo al peccato. Noi non veniamo condannati per aver fatto male, ma per non aver fatto bene; Cristo non avrebbe mai voluto sentir parlare di una morale negativa; “tu dovrai” fu sempre il suo verbo, e con esso egli sostituì l’antico “tu non dovrai”. Far sì che la nostra idea di moralità si limiti a valutare atti proibiti non fa che contaminare la nostra immaginazione ed introdurre un elemento segreto di piacere nei no-stri giudizi sul prossimo. […] un appetito mortificato di per sé non è mai un saggio compa-gno, e anche se costui avrà dovuto mortificare un appetito, non avrà per questo cancellato la parte peggiore che risiede in lui; in più gli verrà richiesta una buona dose di benignità nel giudicare la vita ed una buona dose di umilità nel giudicare gli altri […]”. [Stevenson, 1892: 61].

Era dunque con questa poetica che Stevenson schiariva il bigotto moralismo vittoriano della sua epoca. Questo genere di osservazioni possono far comprendere le ‘ragioni psicologiche’ della popolarità dell’opera di Stevenson nel suo tempo. Ma ancora oggi queste ‘ragioni psicologiche’ continuano ad avere un loro fascino presso un pubblico che può essere molto differenziato.  

Robert Louis Stevenson 1850-1894

L’Ombra nell’opera di Stevenson

 In Psicologia analitica e arte poetica, Jung per offrire una rappresentazione degli archetipi in chiave scientifico-filosofica utilizza il concetto kantiano di a priori. Gli archetipi dunque sono inconoscibili come il noumeno, di essi si può solo avere una esperienza indiretta attraverso ‘immagini’ determinate da un’ energia psichica formatrice.

Queste ‘immagini’ mutano nel corso della filogenesi umana, e quindi vengono espresse secondo gli atteggiamenti delle diverse culture ed epoche storiche.

In tal senso le rappresentazioni simboliche hanno un carattere universale ed archetipico, ma anche una forma culturalmente e storicamente determinata. Secondo Jung ogni epoca ha un suo lato inconscio, ovvero in “Ombra”, che è direttamente responsabile dei fenomeni contraddittori e disfunzionali della società in un certo periodo storico (cfr. Bonvecchio e Risé, 1998?).

Molte opere di Stevenson rivelano con una particolare forza narrativa – divulgativa e popolare, ma al tempo stesso densa di rinvii elitari – l’ Ombra dell’ Inghilterra vittoriana del suo tempo. Il critico letterario A. Alvarez riferendosi alla produzione letteraria di quell’epoca osserva:

“[…] i vittoriani avvertivano con disagio che dietro la loro vita prospera e ben regolata la loro fiducia, la loro proprietà, si stendeva un mondo di tenebre di cui era meglio non pren-dere nota. Le tenebre si manifestavano in molte forme, dalla melanconia di Tennyson alla mania depressiva di Edward Lear sino allo spettacolare sadismo di Jack lo squartatore. I vittoriani disapprovavano tutto ciò, lo negavano ma ne erano affascinati e, a pegno della loro negazione, trasformarono il sordido omicidio domestico in una forma di arte popolare. E lo immortalarono nella Camera degli Orrori nel Museo elle Cere di Mme. Tussaud […] Il romanticismo aveva indoto a volgersi verso la propria vita interiore e i vittoriani comincia-vano a capire quanto poco conoscessero dell’argomento” [Alvarez, 1995: 204].

Stevenson, dunque, volle esprimere la contraddittoria vita interiore della sua epoca, pregna di un romanticismo puritano venato di horror e di noir, in uno stile letterario che Mario Praz ha definito nei seguenti termini:

“[…] un realismo irreale in quanto che l’essenza stessa dei suoi racconti, è formata da qualche immagine o visione irreale, allucinatoria, a cui talora il magistero dello stile par conferire un valore metafisico di simbolo” [Praz, 1946: 366].

La funzione educatrice dell’ opera d’ arte sarebbe quella di “compensare” l’ archetipo dell’ Ombra, che appartiene alla società nel suo insieme, e che viene esplorato dal punto di vista soggettivo dell’ artista. Questa esplorazione dell’ artista non è però sempre ‘contemporanea’ al periodo storico, essa può presentare una simbologia che si rivela soltanto in epoche successive, e che quindi anticipa profeticamente l’ evolversi della storia. Tale anticipazione è una elaborazione inconscia dell’ artista, il quale non è in grado egli stesso di comprenderla coscientemente, se non come premonizione mantica e profetica.  Il concetto di Ombra in quanto dimensione inconscia più oscura e più contrapposta alla coscienza individuale e sociale, appare come una sconfinata e inesplorabile alterità, che qui intendiamo far affiorare come una immagine squisitamente stevensoniana . Ne “Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde”, l’ Ombra assume una configurazione atemporale che, pur giocando un forte contrasto con la coscienza epocale contemporanea a Stevenson, va al di là di essa, per diventare una specie di parabola proverbiale sul bene e sul male che c’ è in ogni uomo d’ogni tempo e luogo. In questa riverberazione archetipica, che riecheggia nella duplicità della coscienza individuale di ciascuno, si deve, con tutta probabilità, comprendere la fortuna di questo racconto che fa parte di un immaginario collettivo ancora pienamente attuale.

Carl Gustav Jung

Secondo una lettura junghiana possiamo dire che Lo strano caso del Dott. Jekyll e Mister Hyde mette in scena l’ incontro dell’ Io con la propria “Ombra”.  Nel romanzo di Stevenson (il più letto tra tutti i romanzi di tutti i tempi), di idiosincratica doppiezza (che riguarda tutti), si evince una rappresentazione dell’archetipo dell’ Ombra, come componente inconscia che può giungere a contrastare pericolosamente la coscienza, quanto più viene da essa scissa e respinta. La studiosa junghiana Barbara Hannah evidenzia che Stevenson nel ‘Jekyll e Hyde’ e in altre sue opere coglie il paradosso dell’ unità e della separazione tra il bene e il male. Paradosso che riguarda prima di tutto la natura divina e si riverbera sulla creazione e sull’essere umano (vedi Hannah, 1971: 41-42). La Hannah fa notare la natura edenica della raccolta di poesie di Stevenson Child’s Garden of Verses, che sono state scritte dopo i trent’anni, ma con uno spirito decisamente fanciullesco. Come tutti quelli che vagheggiano il Paradiso, e possono facilmente andarci con la fantasia, Stevenson soffriva partico-larmente il contrasto tra questo luogo vagheggiato luminoso e il mondo terreno afflitto dall’ombra del male. La Hannah fa notare che anche il paradiso “ha il suo “capello nella minestra”, nell’immagine del serpente che tenta Eva a disobbedire a Dio, causando l’espulsione dei nostri progenitori dal Paradiso [trad. nostra; idem, 41]. Dunque, Stevenson avendo ‘frequentato’ il giardino dell’Eden aveva anche notato come il serpente non fosse lì per caso: il serpente aveva tratto dalla beata ignoranza dell’inconscio i nostri progenitori per condurli sulla paradossale e difficile strada di una coscienza più vasta. Tale coscienza presuppone un’integrazione di aspetti opposti ed anche dolorosamente inconciliabili. E’ solo tenendo presente la contraddizione e confrontandosi continuamente con essa, senza rimuovere nessuna della due polarità, che lo stato di coscienza trova nuove possibilità evolutive. Per questo motivo nei suoi romanzi Stevenson frequenta intensamente l’Ombra e il Doppio, nell’affannosa ricerca di una nuova sintesi, la cui ispirazione conduce ad un atteggiamento di tolleranza. Il dramma di Jekyll e Hyde sta nel fatto che l’integrazione tra gli opposti risulta impossibile, non vi sono dunque prospettive evolutive, la scissione volge alla catastrofe. Ecco come questo processo viene spiegato da Mario Trevi nella sua introduzione al Jeckyll e Hyde:

“La prima operazione (psichica e non ancora chimica) di Jekyll è giusta: l’agnizione dell’ Ombra, il riconoscimento delle proprie parti moralmente negative, forse tanto infantili quanto perverse. La seconda operazione di Jekyll è tragicamente erronea: “[…] disgiunse in me quelle due zone del bene e del male la cui fusione costituisce l’aspetto duplice della natura umana”. E’ questa operazione (ancor essa psichica, prima che chimica) che Jung avrebbe poi chiamato in vario modo, ma che noi possiamo denominare separazione e rifiuto dell’ Ombra. L’Ombra non va rifiutata perché ogni ripudio di essa comporta un impoverimento della personalità che potrebbe poi dover essere amaramente pagato per tutta la vita. Ma l’ Ombra, in quanto personalità secondaria, non va neppure resa autonoma, scissa dall’ Io che ne sopporta il peso. (Ed è proprio quello che finisce per fare il Dott. Jeckil, mandando in giro Mr. Hyde in cerca di quei piaceri e di quelle efferatezze che la sua rispettabilità borghese non gli permetterebbe). L’ Ombra deve rimanere legata all’Io mediante un sottile inarrrestabile rapporto dialogico. Soltanto questo dialogo ininterrotto può fare dell’Io e della sua Ombra un’unità dialettica nuova. Solo questa relazione che dà spessore alla personalità è in grado di spingere l’individuo verso a sua meta destinale profonda” [Trevi, 1991:14].

Lo studioso junghiano Claudio Risé commenta quanto Barbara Hanna dice intorno a Stevenson nei seguenti termini:

“Ella rimprovera a Stevenson di aver lasciato che Henry Jekyll, una volta scoperto il proprio Hyde, abbia preferito essere ora l’uno ora l’altro, andando così incontro alla dissociazione e alla morte, invece di integrare Jekyll […] e andare verso la totalità […] E’ possibile che se Jeckyll avesse accettato una maggior dose di sofferenza, imbrigliando Hyde e prendendone la responsabilità, l’equilibrio di Stevenson sarebbe stato più saldo e la sua salute ne avrebbe tratto giovamento. Ma non ne sarebbe nato Jeckil e Hide […]”.

L’artista è l’esploratore, una psiche di frontiera, il cui destino è quello di vedere nuovi territori e far partecipe il mondo di questa scoperta. Non possiamo sgridarlo se viene divorato dagli indigeni o dalle belve. E’ proprio la sua libertà che ci consente di partecipare ad avventure, forse, per noi, troppo pericolose. [Risé, 1987:74-75].

Kumi Yamashita, ombre.

BIBLIOGRAFIA Bonvecchio, C. e Risé, C. (1998) L’ombra del potere. Como, Red Edizioni. Franzini, E. e Mazzocut-Mis, M. (1996) Estetica. I nomi, i concetti, le correnti. Milano, Bruno Mondadori. Praz, M. (1946) Storia della letteratura inglese. Firenze, Sansoni. Hannah, B. (1971) Striving towards wholeness. New York, G. P. Putnam’s Sons. Marchese, A. (1978) Dizionario di retorica e stilistica. Milano, Mondadori, 1995. Risé, C. (1987) (a cura di ) Teatro della notte. Sogni e visioni: laboratorio dell’artista. (Raccolta di saggi di Stevenson R. L.). Como, Red Edizioni. Stevenson, R. L. (1892) Discorso di Natale ora in Risé, C. (a cura di) op.cit. 1987.