Himba, Namimbia

Himba, Namimbia

Vestirsi di anima e di animalità

Prima della comparsa e della diffusione delle tecniche di tessitura – quindi in epoche ancestrali che vanno dalla notte dei tempi  fino a  10.000 anni fa – il modo ‘più primordiale’ di coprire il corpo era quello di impiegare pelli di animali. Le si trattava con processi elementari di essiccazione e conciatura, per poi tagliarle con pietre affilate, forarle con punteruoli d’osso e legarle e cucirle con tendini o fibre vegetali, anche con l’ausilio di grossi aghi.  Certamente l’abbigliamento degli albori non permetteva di esprimere particolari performance estetiche, quanto più che altro pratiche, protettive e di ordine simbolico. Tuttavia vestire con la pelle o la pelliccia di un animale voleva dire anche trarne  magicamente certi particolari poteri, e ciò comportava, per quanto possibile anche una cura estetica e cerimoniale di fogge e ornamenti. E’ assai probabile che l’uccisione di animali al fine di reperire le pelli, le ossa, i denti per creare indumenti e ornamenti, comportasse un’attività non soltanto tecnica e artigianale, ma anche di ordine cerimoniale, e soprattutto, in onore degli animali totemici. L’uomo primitivo aveva una concezione animista della realtà e in particolare degli animali. Coprire il corpo con pellami, pellicce e lane era dunque particolarmente impegnativo anche da un punto di vista magico-sacrale. Occorrevano dunque determinate cautele cerimoniali per difendersi dall’impurità e da eventuali spiriti maligni e vendicativi riferibili agli animali uccisi. In genere la pelle di un’animale era considerata un feticcio, quale resto di un sacrificio comprendente l’uccisione di un animale, fino ad essere consacrata quale simbolo centrale di un mito; così come fu per il celebre Vello d’oro nella Grecia di Omero.  Quando una pelle di animale veniva  ‘trattata’ cerimonialmente e non solo artigianalmente, la possibilità di ibridarla con la figura umana attraverso l’abbigliamento dava luogo a miti, riti e narrazioni leggendarie.

Nel mondo primitivo – del quale abbiamo reminescenze anche dagli usi e costumi di comunità neo-paleolitiche ancora oggi sesistenti – si credeva che gli spiriti maligni e le forze animiste negative  potevano agire attraverso le impurità di un qualsiasi oggetto, persona, ambiente, o pianta o animale. Cosicché  gli abiti dovevano avere funzioni protettive anche in senso spiritico e animistico, e perciò dovevano anche essere creati attraverso  cerimoniali  purificanti e propiziaziatori. La vestizione di un abito importante costituiva un atto cerimoniale essenziale, avente in particolare funzioni iniziatiche.    Stregoni, sacerdoti, regnanti e guerrieri hanno da sempre indossato, previo opportuni atti magici, iniziatici, purificatori e propiziatori, maschere e costumi realizzati con materiali, forme e colori aventi il senso di una congiunzione tra natura e spirito, tra l’animale e il divino. Nacque così uno stilismo immaginario ispirato dalle forze animiche e animali della natura. Le prime culture d’origine, dal neolitico e all’inizio delle civiltà storiche (ca. 5000 anni fa) hanno ovviamente elaborato diverse concezioni magico-sacrale primordiale, dando all’abito e agli ornamenti una funzione simbolica e rappresentativa di primaria importanza, che conserva la relazione animica, spirituale e divina con le forze e le creature della natura, reali e immaginarie.

 

collar from Tutankhamun's

collar from Tutankhamun’s

 

L’archetipo del vestire

Gli archetipi – scoperti da Carl Gustav Jung – sono disposizioni a pensare e ad agire innate nella psiche dell’umanità (inconscio collettivo) e riguardano i sentimenti, la spiritualità, la creatività il confronto con l’oscurità e il mistero – perciò sono gli stessi in tutti gli individui e in tutte le culture, seppure si manifestano in modi differenti. Possiamo dire che l’archetipo della “Persona” (dal latino Persona vuol dire ‘Maschera’) è quello specifico del vestire, infatti esso è quel fattore della psiche che dispone a rappresentarsi con una propria immagine e ruolo. La Persona non è solo l’archetipo dell’apparire, ma anche dell’essere, infatti in base alla propria immagine personale esprimiamo volontariamente e involontariamente emozioni, idee e valori profondi della nostra personalità e costruiamo relazione e società. L’abbigliamento e il look sin da tempi remoti e nelle loro infinite variazioni ed elaborazioni sono manifestazioni dell’archetipo della Persona, ovvero di un ‘istinto culturale’ ad apparire per essere e comunicare.

Nella contemporaneità gli ‘dei e i sacerdoti’ che fanno la moda sono gli stilisti, le star e i vip, così come anche coloro che esprimono per primi un trend, una novità, un mood, che sono cioè i primi ad essere all’ultima moda. Molti studiosi della società post-moderna si sono resi conto di come certi fattori culturali ancestrali siano ancora leggibili negli usi e nei costumi attuali, per quanto siano stati elaborati  e desacralizzati dal consumismo e dalla spettacolarizzazione mediatica. Comprendere fattori originari nella preistoria e nella storia del vestire consente quindi di approfondire il punto di vista sulla moda e il ‘fashion system’ nella post-modernità.

Il senso originario magico-sacrale dell’abbigliamento diede luogo sin dagli esordi delle collettività umane organizzate ad un continuo perfezionamento della bellezza e della creazione di segni distintivi, mirati a recare prestigio onorifico e straordinaria espressività simbolica.

Sposa Turkana, Kenia

Sposa Turkana, Kenia

L’abbellimento delle ‘mise’ più primordiali e selvagge non poteva essere ottenuto con il taglio, la cucitura, la forma quanto come abbiamo osservato,  con l’ausilio di ciondoli e ornamenti, ed anche attraverso tatuaggi e piercing recanti simbolismi magico-religiosi, connessi all’appartenenza ad una tribù, una fratria, o ad una certa casta.

In ciò emerge il senso sacrale e archetipico della funzione estetica e comunicativa che ‘veste la natura umana’, e quindi che investe l’animale umano di umanità, socialità e spirito. Gli antropologi hanno individuato diversi fattori che sanciscono il passaggio ancestrale tra l’animale e l’essere umano. Darwin propose una teoria evoluzionistica di passaggio tra la scimmia e l’uomo, ciò non toglie che l’uomo – la scimmia senza peli  – divenne veramente tale quando cominciò a vestirsi. Secondo il celebre antropologo Lévi-Strauss la linea che determina la mutazione da animale ad essere umano e riscontrabile nella differenza tra  “ Il crudo e il cotto”, cioè tra il consumo di cibi consumati non cucinati e quelli invece cucinati (cosa che non fa nessun animale).

Altro fattore evolutivo degli ‘ominidi’ potrebbe essere derivato dalla consapevolezza della morte, giacché le prime culture umane si svilupparono dando una straordinaria importanza ai riti funerari, al culto degli antenati e alle costruzioni di tombe. Un altro punto di vista, certamente più piacevole, è quello del già citato Morris che spiega quanto sia stato importante per l’evoluzione umano imparare a compiere l’atto sessuale in reciproca posizione frontale – faccia a faccia – piuttosto che solo in posizione posteriore, come fanno tutti gli altri mammiferi.  Si tratta di fattori evoluzionistici, legati alla natura, agli istinti della fame e del sesso, alla morte, che sono certamente fondanti per segnare la trasformazione degli ominidi nella specie propriamente umana; ma un fattore che è particolarmente creativo e culturale è dato dal fatto che l’uomo si è distinto dagli animali imparando a vestirsi, con finalità pratiche ed anche espressive. Dal momento che il vestire assume un senso estetico-simbolico, e non solo pratico e protettivo, il vestiario denota la nascita di  un linguaggio visivo individuale e collettivo fondamentale per dare all’essere umano una ‘natura culturale’, orientata alla bellezza e alla convivialità.  Il limine che segna l’arcano passaggio della trasformazione non solo biogenetica, ma culturale tra l’animale e l’uomo potrebbe quindi individuarsi tra ‘il nudo e il vestito’. Certamente anche la cottura dei cibi distingue l’essere umano dagli animali, ma il vestiario avente funzione simbolica oltre che protettiva determina maggiormente forme culturali di linguaggio e di organizzazione sociale.

Mongolia

Mongolia

In tal senso l’abito sacerdotale o regale diventa essenziale nel rito magico-sacrale in quanto chi lo indossa viene automaticamente investito di un potere soprannaturale.  In effetti ci sono voluti diversi millenni affinché fosse coniato il proverbio italico: ‘l’abito non fa il monaco’, giacché sin da tempi arcaici gli abiti sacri  conferivano di per se stessi sacralità. D’altra parte qualcosa di analogo avviene nell’inconscio di chi indossa ancora oggi un abito di grande fascino, realizzato con materiali e finiture di pregio e per di più alla moda: ecco che ci si sente ‘divi’, cioè vestiti e investiti di un particolare prestigioso potere ‘psicomagico’.

Ragazza Long Neck (Thailandia)

Ragazza Long Neck (Thailandia)

I costumi delle prime civiltà arcaiche differenziavano con particolare evidenza gli abiti femminili da quelli maschili in tutte le occasioni, sia quotidiane e sia cerimoniali. In genere le linee femminili sono più morbide, sinuose e arrotondate, a queste vennero destinate soprattutto garze, veli e sete. Anche il corpo delle donne era deformato per ragioni estetico-rituali, come nel caso delle vertebre cervicali delle donne long neck della Thailandia, o i piedi delle donne cinesi mantenuti piccoli da strette fasciature (pratica vietata solo al tempo di Mao).

Dani Papua, Nuova Guinea

Dani Papua, Nuova Guinea

L’idea e la pratica dell’abbigliamento come segno di potere e di distinzione è da sempre presente e, in origine, congiungeva la sfera del sacro a quella di una ritualità erotico-propiziatoria. Sacralità e sessualità non erano separati come fossero stati il bene e il male, e quindi il sesso faceva parte della ritualità e della narrazione magico-religiosa.  La fascinosità e la simbolicità delle vesti di dei, re ed eroi poteva essere ad un tempo ieratica ed erotica. Questa compresenza di caratteri magico-sacrali e sessuali, si ritrova nel folklore e nelle tradizioni dei popoli, e ha una sua  espressione attraverso le danze, le feste, i riti  di propiziazione,  corteggiamento e della celebrazione amorosa. Gli abiti da fidanzamento e matrimonio, per entrambi i partner, valorizzati da anelli e collane che sono il pegno di un sicuro e duraturo vincolo, hanno comportato la massima spinta nella ricerca di un linguaggio del vestire che fosse stato creativamente e spiritualmente coinvolgente per i giovani di tutti i ceti sociali. Questo raffinato modo  erotico-spirituale di concepire il linguaggio del vestire si sviluppò originariamente tra quelle popolazioni primitive protagoniste dell’era di passaggio che va dalla Preistoria alla Storia, il cui inizio è databile a circa 5500 anni fa con le civiltà dell’Egitto e della Mesopatamia.

Aboriginal

Aboriginal

Gli abiti maschili sono da sempre più rigidi e geometrizzati e, più spesso, sono realizzati con tessuti robusti, quali lino, cotone e lane, e in certi casi anche feltri. Il vestimento necessariamente maschile è l’astuccio penale, una protezione rigida in cuoio, spesso decorata che risale alle culture primitive e che aveva certamente simbolicità fallico-propiziatorie.  Ma l’abbigliamento ha iniziato una sua vera evoluzione estetica vestendo la a grazia del femminile. La donna venne quindi celebrata e valorizzata nell’abbigliamento esaltandone la bellezza, mentre la forza e la virilità maschile venne evidenziata con criteri stilistici maggiormente volti alle attività eroiche e guerriere.

dior 1952

 Dior 1952