Le origini psico-antropologiche dei problemi in famiglia
Recentemente sono stati scoperti alcuni affaire di una famiglia australopiteca simil-ominide – che visse in Tanzania circa 3,6 milioni di anni fa. Il ‘marito’, diciamo così, era poligamo, infatti le orme rinvenute dai paleoantropologi rivelano una passeggiata di cinque persone, ovvero un maschio, tre femmine, e un bambino. In precedenti rilevamenti erano apparse le orme solo di una coppia con il bambino, così che si era pensato ad una classica giovane famigliola.
Come si vede per indagare sul ‘profondo della famiglia’ – della famiglia attuale, quella nostra e quelle degli altri – ci affacciamo per qualche istante fino ai tempi di Adamo ed Eva, e più esattamente gettiamo uno sguardo all’era di Lucy e dei suoi amici australopitechi, vissuti anche oltre 4 milioni di anni fa. Ma a che ci serve questa breve visita nel passato remoto? Ad esempio a farci riflttere sulle nostre originarie e connaturate tendenze monogamiche o poligamiche. Ma più complessivamente ci induce a presagire che, nel profondo della nostra coscienza, come individui e come membri di una famiglia, vi sono fattori archetipici che ci influenzano, ci ispirano, ci condizionano e che risalgono al primordiale formarsi della psiche. Gli archetipi secondo Jung sono i formanti dell’inconscio collettivo, ovvero la base psichica inconscia comune a tutti gli individui e relativamente immutabile nel corso dei tempi. Così come il corpo umano si è evoluto, ma ha conservato delle funzioni e delle forme di base, come la postura eretta e i molteplici aspetti morfologici e fisiologici necessari alla vita e alla riproduzione, così anche la psiche si è evoluta, ma ha preservato fattori archetipici comuni a tutti (in tal senso riferibili ad un inconscio collettivo). Ad un livello sottostante le fantasie, le emozioni, i comportamenti, gli archetipi hanno funzioni attive, in quanto predisposizioni e configurazioni innate e universali. Dopo tutto anche i primi uomini hanno affrontato le esperienze del dolore, della malattia, della morte, della nascita, del piacere, dell’alternarsi delle stagioni, del sole che nasce e tramonta, e ciò ha determinato una base archetipica insita nella psiche collettiva, dalla quale poi emerge la psiche individuale. Ciascun essere umano nella sua psiche ha gli stessi ‘pezzi’ così come li ha un caleidoscopio, ma ciascuno lo ruota in modo diverso e così si possono costellare infinite immagini, tutte diverse eppure tutte composte da fattori comuni, ovvero gli archetipi. Così anche la famiglia di ciascuno è una ‘costellazione famigliare’ che a sua volta si posa su una ‘costellazione archetipica’ che ha avuto la sua origine col nascere della specie umana. Comprendere la nostra famiglia d’origine, vuol dire anche avere la capacità di vedere le componenti archetipiche che sono insite nelle origini primordiali della famiglia.
Mentre per Freud la vita dell’individuo e della sua famiglia sono da leggersi nel quadro della vita personale nell’ambiente (ontogenesi) per Jung il quadro diventa più ampio e precede l’esistenza individuale in quanto si estende fino alle origini dell’umanità (filogenesi). Alla base dei nostri desideri, comportamenti, emozioni, potenzialità e disturbi psichici ci sono archetipi, cioè predisposizioni innate, delle quali è importante acquisire coscienza, dato che la conoscenza profonda di noi stessi ci aiuta a vivere e a recepire gli insegnamenti della scuola della vita. I nostri problemi, e quelli della nostra famiglia, non dipendono solo dalla nostra esistenza, ma da una remota eredità che agisce dentro di noi, e che ci sovrasta e ci disorienta quanto meno la comprendiamo, e quindi agisce in noi dall’inconscio esprimendosi anche attraverso sintomi e problematiche, che hanno il compito di richiamare la coscienza ai suoi archetipi ereditari. Questa stessa eredità archetipica, se ascoltata e compresa, con un’attenzione al suo linguaggio simbolico, immaginale ed anche spirituale può aiutarci ad individuare la strada giusta per essere noi stessi e per affrontare da un punto di vista più profondo le problematiche famigliari.
Il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, i nonni, gli zii, non sono solo quelle persone con le quali siamo legati per questioni di DNA e per via della fatalità del destino, esse determinano in noi un legame archetipico con la vita, un nostro far parte della specie umana, in un tramandarsi di destini e di fatti ancestrali. In ogni epoca la famiglia ha costituito la cellula del tessuto sociale, e ha interagito con esso attraverso formidabili e complessi processi adattivi. La sua funzione fondamentale è sempre stata quella di trasmettere la vita umana, ma con essa anche i suoi archetipi fondativi. La famiglia nell’avviare alla vita l’individuo non provvede solo ai bisogni materiali, ma anche a quelli psichici, inclusi quelli più elevati che indicano la possibilità di sopravvivere a se stesso, verso il futuro della specie, ma anche in un spazio sovratemporale ed extraordinario che va al di là di ‘questa vita’ e anela a farsi spirito. In ogni famiglia ed intorno ad essa, e tra le famiglie, c’è sempre un’archetipica lotta tra il bene e il male, ciascuno deve vivere la sua, ed affrontare le sfide del suo tempo. Quindi ogni famiglia nel bene e nel male offre a ciascun essere umano una sfida evolutiva per trovare se stesso. L’ambivalenza degli affetti famigliari, la dura battaglia tra potere e armonia, amore e odio, protezione e dominazione, fiducia e timore, ingenera in ciascun individuo una possibilità personale di confrontarsi con le basi archetipiche della sua soggettività. In altri termini i problemi di famiglia non devono essere pensati solo come qualcosa che va risolto, ma come uno stimolo che per poter essere risolto richiede di rinsaldare l’albero della vita nelle sue radici, in modo che possa dare nuovi frutti e semi, ed evolvere.
La possibile risoluzione dei problemi famigliari dipende anche da come siamo capaci di affrontarli in una prospettiva psicologica ed archetipica, cioè di vedere la tela di fondo dalla quale ciascun membro della famiglia emerge con il suo segno particolare. Il ‘quadro famigliare’ del quale facciamo parte, e che è parte di noi, non va visto quindi solo cercando di decifrare le personalità dei membri della famiglia, ma comprendendo le loro predestinazioni archetipiche.
Torniamo alla poliandria, o alla poligamia, considerandole una sorta di determinante archetipica della natura umana rispetto alla sessualità. La capacità di scegliere la fedeltà per amore di una persona, e quindi la monogamia, sono modi culturali, morali, spirituali di determinare se stessi senza essere schiavi delle determinazioni archetipiche. Tuttavia si può anche essere dominati da tabù e sensi di colpa per cui vengono castrate le determinanti archetipiche e ci si costringe ad una monogamia che non si basa su una vera armonia psicologica tra i partner, ma sulla propria incapacità di seguire la propria natura innata. Come si vede si tratta di ritrovare un’adeguata posizione di ‘felice compromesso’, di riuscire a scegliere e a scegliersi, senza far pagare agli altri e alla famiglia la propria incapacità di scelta. Tale incapacità determina insoddisfazioni che si fanno pagare alla famiglia. Si fanno figli per non stare soli, o non si fanno per paura che possano essere di impedimento, ci si sposa e ci mette con un amante, si coltivano vittimismi, colpevolizzazioni, rancori, ci si fa del male approfittando di legami affettivi che dovrebbero servire a farsi del bene. Si determinano allora influenze e condizionamenti famigliari che rendono difficile vivere, amare, realizzarsi. Come possiamo trovare la via per liberarci e ritrovare il proprio cammino personale? Non vi è altra possibilità per questo viandante se non quella di considerare due fattori. Il primo fattore riguarda l’analisi di se stesso, dei suoi veicoli e moti interiori, e di come le figure famigliari lo influenzano e lo condizionano. Il secondo fattore riguarda l’esplorazione delle costellazioni e dei territori che ciascuno abita in un determinato punto del tempo e dello spazio, ma che esistono ed esisteranno sempre dalla preistoria alla protostoria dell’umanità. Perciò qui volgiamo uno sguardo ai fattori archetipici che costituiscono la famiglia primordiale, i cui resti sono ancora attivi quali componenti dell’inconscio collettivo, dal quale emerge la specificità di ogni inconscio famigliare e individuale.
Il tabù dell’incesto
Gli antropologi hanno indagato come il fattore costitutivo della famiglia primordiale sia stato il tabù dell’incesto. Dall’indagine etnologica si è riscontrato che si tratta di un tabù universale, che però non è regolato nello stesso modo nelle differenti ‘società primitive’. Le relazioni sessuali tra consaguinei erano proibite, ma a seconda delle regole, ci si poteva accoppiare con la sorella maggiore, oppure con la zia paterna, o lo zio materno ecc. In rari casi l’incesto era legittimo per i capi e i regnanti, in modo da rimarcare il loro statuto di esseri superiori.
Levi-Strauss nel suo libro Le strutture elementari della parentela (1949/1968) considera come il tabù dell’incesto segni il passaggio tra lo stato di natura a quello di cultura. L’istinto sessuale viene regolamentato con proibizioni e prescrizioni. Evidentemente la specie umana non avrebbe potuto evolvere senza che vi fosse stata la capacità e la volontà di modificare il comportamento animale, per i quali l’incesto non é inibito. Ma per gli umani, tale proibizione, è stata una scelta, o una necessità? Probabilmente entrambe le cose. Secondo Levi-Strauss il tabù dell’incesto deriverebbe dalla necessità e dalla convenienza di distribuire con maggior vantaggio i ‘beni rarificati’, cioè quelli più appetibili e più utili, stiamo parlando di donne in giovane età. Queste rappresentavano una sorta di ‘primizia’ dal punto di vista erotico ed economico, in quanto particolarmente attraenti per il maschio ed anche più avvantaggiate per una riproduzione prolifica. Rinunciare alle figlie e alle sorelle giovani, voleva dire poterle donare ad altri maschi del gruppo non consanguinei, e nel contempo si avrebbe avuto accesso alle ‘loro donne di famiglia’. E’ ormai superata l’idea che questi nostri primordiali antenati avessero qualche convinzione che i figli di consangunei fossero meno sani e forti a causa di più rischiose probabilità genetiche. Ciò che contava secondo Levi-Strauss era dare avvio ad una ‘cultura sociale’ attraverso il ‘sistema del dono e della reciprocità’ (così come per primo ha saputo evidenziare l’antropologo Marcel Mauss). Attraverso lo scambio delle giovani donne, la famiglia si intrecciava con altre famiglie e quindi diventava più potente e numerosa. Quando ciò avveniva all’interno dello stesso gruppo o tribù si parla di endogamia, mentre se lo scambio avveniva con ‘stranieri’ si parla di esogamia. La società si è evoluta con entrambe queste forme, ma la seconda è da considerarsi più evoluta, in quanto tesse relazioni sociali più ampie. L’obiettivo di farsi famiglia come cellula della società, non era puramente altruistico, ma dettato dal bisogno di fortificare la propria esistenza individuale e famigliare anche in senso egoistico, nonché di poter affermare una supremazia sociale, arrivando ai ranghi più elevati, o addirittura a diventare la ‘famiglia regale al comando’.
Tutto ciò comportava sin dalle origini un affinamento delle regole intrafamigliari e interfamigliari, per cui entravano in gioco questioni di rango e di clan, nonché rituali volti a consacrare le relazioni di ‘scambio donne’. La poligamia, ed anche la poliandria, per quanto fossero anch’esse regolamentate da prescrizioni, non erano considerate un tabù, cosicché il matrimonio monogamico è da considerarsi un’invenzione molto recente.
Il sorriso squilibrato di Edipo
Freud ha sconvolto la cultura ottocentesca vittoriana rivelando come il neonato, e poi l’infante fino al periodo di latenza (circa sei anni quando la sessualità viene rimossa, e quindi resa ‘latente, ‘messa a lato’) non disdegna di provare piacere sessuale con i genitori. Freud ha quindi messo al centro della sua psicologia il Complesso di Edipo, aprendo innumerevoli scenari sulla triangolazione che vede il desiderio libidico del figlio o della figlia verso il genitore controsessuale, e concomitanti fantasie di aggressione verso il genitore rivale, nonché l’angoscia per la paura di essere da questi puniti (complesso di castrazione). In modo inconscio il ‘Complesso di Edipo’ ha una sua collusione nel genitore, ma la necessità di nutrire e proteggere l’infante con cure sufficientemente amorevoli, comporta un continuativo scambio di segnali pacificanti e di neutralizzazione dell’aggressività. Il sorriso che sin dalle prime fasi di vita il neonato volge alla madre è considerabile come un segnale di neutralizzazione dell’aggressività che induce al prevalere di sentimenti di tenerezza e attaccamento, i quali garantiscono al neonato di sopravvivere e di crescere. Anche tra fratelli e sorelle il nucleo famigliare implica che l’aggressività intrafamigliare sia ritualizzata, mediata e regolamentata. Si tratta di un’impresa ardua che come sappiamo non sempre riesce o riesce male, ma il nucleo famigliare deve lottare affinché le lotte al suo interno non lo autodistruggano, e spesso questa stessa ‘lotta per difendersi dalla lotta’ diventa la causa principale del dissidio e della sconfitta. Ciascun membro della famiglia sarà sconfitto a modo suo, nessuno potrà dirsi vincitore, poiché la famiglia in quanto tale presuppone la salvezza di tutti suoi membri. Ecco allora che questo gran da fare sulla necessità di contenere l’aggressività, implica che ‘essa’ non abbia la necessità di convertirsi nella pulsione sessuale. La sessualità in famiglia diventa tabù perché comporterebbe la messa in crisi dei necessari sistemi di gestione dell’aggressività. D’altra parte la crisi della sessualità genera problematiche di aggressività distruttiva.
Per quanto la coppia genitoriale sia la sola a poter esercitare il diritto a vivere la sessualità, la famiglia mette in scena forti spinte antilibidiche. I figli percepiscono e giudicano con disprezzo e disgusto la sessualità dei genitori e, ancorché adolescenti e poi adulti, bisogna ammettere che si prova un certo senso di imbarazzo nell’immaginare i propri genitori a letto. Pare quasi che dovrebbero anche loro rassegnarsi al tabù dell’incesto. La sessualità genitoriale viene giustificata con un vergognoso sorriso, o con una baldanza carnevalesca che vuol suonare liberatoria quanto emancipata, sicché si percepisce un curioso senso di tolleranza, tra la goffaggine e la ripugnanza quando si immaginano mamma e papà che fanno sesso… e chissà poi come e cosa fanno? E in quali esseri strani, se non addirittura mostruosi, si trasformano mentre lo fanno? Se non lo fanno con noi figli o è perché è una cosa brutta che fanno tra di loro, e che perciò sono brutti, e quindi anche cattivi, oppure il sesso è una cosa bella, e di conseguenza, privarcene e vietarcelo – in modo anche esplicito con i controlli e i divieti nella fase adolescenziale – sarebbe da ‘prepotenti cattivi’.
La sessualità tra i genitori è inconsciamente percepita dai figli come qualcosa di torbido che comporta un’esclusione dei figli dall’affettività dei genitori, i quali sono fantasticati nel loro amplesso come una ‘scena primaria’ (Freud) che cova minacce e tensioni aggressive, nonché una trasformazione della personalità del genitore che lo fa apparire come animalesco e mostruoso. Da ciò si sviluppano fiabe e leggende centrate su orchi e streghe quali rappresentazioni delle tenebre che le personalità genitoriale coverebbero nei loro ritiri occulti, ovvero nella camera da letto. I figli perciò tentano inconsciamente di opporsi alla libido genitoriale e di cacciarsi in mezzo a loro nel lettone, ove spesso, secondo la psicoetica in voga vengono accolti – nonostante anche la psicologia più divulgativa sconsigli fortemente tale promiscuità simbolica e sensoriale tra genitori e figli. Capita allora che i genitori si lascino inibire dai figli, o che lo adoperino come scudo umano per giustificare le loro personali inibizioni verso il partner. In effetti accade anche questo, con le conseguenze disfunzionali a livello psichico e relazionale. L’equilibrio libidico famigliare deve fare i conti con gli effetti collaterali dei tabù e dei fantasmi incestuosi. Perciò i coniugi si sforzano – quando si sforzano – affinché la convivenza, la complessità ambientale e sociale in cui la famiglia è inserita, non arrivino a turbare troppo o in modo irreparabile la loro vita erotico-affettiva. Non bisogna considerare il sesso come un fatto puramente istintuale, in quanto nell’essere umano lo psichismo, inteso come emozioni, affettività, fantasie, immaginazioni è connaturato alla sessualità. Quindi anche laddove la sessualità genitoriale è fortemente vissuta ciò non vuol dire che lo sia anche la vita affettiva e il senso di cooperazione. Talvolta la sessualità diventa una via di dominazione, possesso, ricatto, obnubilazione che serve a drogare la vita affettiva e a fare in modo che l’aggressività possa poi ferire, umiliare, distruggere e dare potere piuttosto che amore. I fantasmi, le minacce e le strategie di tradimento vengono allora innescate per ritorsione o per desideri di supremazia narcisistica. La vulgata allora parla di ‘casini in famiglia’, ma in realtà il bordello avrebbe regole di reciprocità e di galateo che paradossalmente restano superiori, e soprattutto che non paventano esiti e condizionamenti tanto nefasti come quelli che possono scaturire dai veleni di contorte dinamiche libidiche famigliari.
Il sorriso edipico primario di scambio di piacere reciproco, ritenuto come segno di un’intesa esclusiva tra la madre e il bambino, i cui accenti sensoriali ed erogeni sono intrisi di una intensa sessualità infantile, come ha ben rivelato per primo Freud, si adombra di dubbi, ambivalenze, ambiguità. In quel sorriso fiduciario assoluto e indissolubile appare la prima ombra di tradimento, contornato da fantasie di possesso, rivalsa e castrazione: è il complesso di Edipo. Il sorriso allora non è più ‘puro’ , apprende un po’ alla volta l’arte ambigua dell’ironia e del sarcasmo. E’ un sorriso che in modo sano si fa beffe della delusione o si rassegna bonariamente ad essa. Oppure è un sorriso amaro che si stampa sul volto dell’insoddisfazione come per imporle un vano dispetto. Oppure è il sorriso del folle, del cinico, dello psicopatico, del sadico, del narcisista sfruttatore, di chi sorride nel ferire l’altro e nel dominare con un potere che nel suo intimo appare quale inconscia vendetta trasversale, per vendicarsi dei torti subiti nell’infanzia, a causa di un complesso edipico e di desideri incestuosi frustrati e tormentosi.
Le famiglie originarie, poligamiche, poliandriche o entrambe le cose, probabilmente avevano più possibilità di non generare ingorghi libidici tra aggressività e pulsioni sessuali, in quanto non era contemplata un’affermazione della soggettività individuale. Il narcisismo era dominato da potenti censure collettive, per cui ciascun individuo doveva chinare la testa dinnanzi ai voleri del potere sacro. Neppure le caste regali potevano permettersi il narcisismo, se non come vestizione di un ruolo supremo, trascendente la propria intima individualità. Perciò dobbiamo supporre che il sorriso ironico e beffardo, come coadiuvante ‘antiedipico’ (secondo l’idealità rivoluzionaria della liberazione del desiderio espressa a ridosso del ’68 dai filosofi francesi Deleuze e Guattari ), si sia sviluppato solo con l’affermarsi della soggettività, probabilmente con l’inizio delle prime civiltà storiche. Prima c’era poco da scherzare per motivi personalistici, gelosie e tresche affettive famigliari ed extrafamigliari. E’ probabile che la famiglia originaria fosse assai più triste, oltre che più rigida, e che abbia sviluppato una imago di allegrezza e di intima convivialità solo in epoche relativamente recenti. Sull’incesto non c’era niente da ridere, determinando una pesantezza e uno sforzo che comportava specifiche problematicità e infelicità delle quali non ci è dato sapere, dal momento che non possiamo psicoanalizzare i protagonisti del tempo. Ciò che sappiamo è che la famiglia si assestava su una costrittiva struttura di potere, che presumeva il dominio, spesso totale da parte del capofamiglia patriarca, avente potere di vita e di morte su moglie e figli (per quanto secondo le regole consentite).
I retaggi, e non solo i retaggi, di questa concezione patriarcale della famiglia, sono ancora presenti. La rivoluzione della donna, non ancora compiuta, ma comunque che ha disabilitato la concezione patriarcale della famiglia, non hanno disabilitato il potere, ma lo ha duplicato in una competizione che sempre più spesso vede la sconfitta di entrambi i coniugi e la fine della famiglia. Eppure in ciò bisogna anche leggere una sorta di evoluzione, nel senso che se una famiglia deve stare in piedi non è per questioni di potere, non dovrebbe essere neppure per ottenere vantaggi sociali, ma per questioni d’amore. Si di far prevalere la libertà e di dare al potere un ruolo pedagogico, altruistico, generativo e non più di dominio. Si tratta di un’utopia solo se non siamo disposti a rinunciare all’idea della ‘famiglia per sempre’, forse l’evoluzione della famiglia contemporanea, con tutti i suoi disagi e fallimenti è quella di durare nell’amore finché dura, piuttosto che indurirsi o rompersi senza amore, nelle lotte dei supremazia e di potere. Sarà una famiglia provvisoria, transitoria, disarticolata, informale, ma sarà pur sempre un’esperienza famigliare provvida e provvidenziale, e pure, a seconda delle sue possibilità, generativa – ma a patto di non ostinarsi di ad ogni costo a sognare, a ricercare e a ‘forzare’ la famiglia stabile dei ‘per sempre’ e dei ‘mulini bianchi’. Non bisogna più, dunque, considerare un fallimento la famiglia che si è costruita e si è trasformata in altro, essa non è morta, ma prefigura processi personali di emancipazione. Sono tali processi evolutivi che rischiano di fallire, qualora si resta attaccati all’idea che la famiglia giusta sarebbe stata un’altra, più ‘classica’ e ‘stabilizzata’, credendo quindi di aver sbagliato tutto per incapacità o per sfortuna, e di non poter più tornare indietro. Invece bisogna andare avanti, senza rinnegare l’esperienza famigliare conclusa, per quanto sia stata difficile.
Monogamia e tradimento
Nel codice egiziano di Hammurabi (1792-1750 a.C.) il matrimonio monogamico è considerato come un contratto in cui si acquista la moglie. La consacrazione del matrimonio monogamico si ritrova nelle antiche civiltà orientali, come in quella greco-romana, celtica e germanica. Nella Chiesa Cristiana è sancito il concetto di triplex bonum: la fides, consistente nella reciproca fedeltà dei due coniugi, il sacramentum, che è l’indissolubilità del rapporto, la proles (che però può mancare, per quanto la sessualità sia considerata lecita nella misura in cui è riproduttiva); tale dottrina resta quasi immutata fino al sec. XI, ed è solo nel secolo XII che diventa un vero e proprio sacramento.
In generale l’istituzione monogamica, da un punto di vista sociologico, è vista come un adattamento imposto dal sistema produttivo, di controllo e di potere. Secondo Engels, in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884/1891), la famiglia si istituisce in funzione dei modi di produzione, secondo gli interessi della classe dominante. Diciamo che la famiglia viene concepita attraverso un connubio di usi, leggi e tabù più funzionali a logiche di sfruttamento e di dominio. Ma la famiglia si organizza e muta non solo per lasciarsi sfruttare, ma anche per sfuggire allo sfruttamento, mirando ad una equità sociale, oppure al raggiungimento della supremazia attraverso forme di potere familistico. In tal senso si potrebbe considerare non tanto la monogamia in se stessa, ma il suo irrigidirsi, come una sorta di imposizione psicosociale che oscilla tra romanticismo e tomba dell’amore-
Mentre il tabù dell’incesto si consolida e si precisa nel corso delle epoche, la monogamia, per quanto prescritta da leggi sacre e statuali, non è mai riuscita a diventare una sorta di legge naturale e universale, capace di modificare l’istintualità animale dell’essere umano. Nei mammiferi la monogamia è rara, mentre invece è abbastanza comune in diverse specie di uccelli. Le motivazioni sono evidentemente dovute ad esigenze biologiche. Pur essendo il mammifero per eccellenza l’essere umano si è evoluto nella direzione della famiglia monogamica, ma non in modo indolore, cioè tra sotterfugi, tradimenti e fatti di sangue.
Il ‘romanzo famigliare’ si tinge di psiconoir dal momento che la monogamia, per quanto venga assunta come virtù, viene continuamente aggirata, non solo e non sempre attraverso la messa in atto di tradimenti, tresche o scappatelle, ma soprattutto a livello della fantasia e dell’immaginazione. In ogni coppia, per quanto la fedeltà sia certa e reciprocamente desiderata e garantita, si manifestano sogni fantasie ad occhi aperti, condivise con il partner oppure tenute nel proprio intimo, di adulteri, accoppiamenti orgiastici, di amplessi extraconiugali trasgressivi della relazione monogamica. Ma a ben vedere è la vita monogamica che trasgredisce la naturale spinta poliandrica e poligamica che c’è in ciascun ‘mammifero umano’. D’altra parte i potenti fantasmi della gelosia e dell’invidia implicano che il partner venga posseduto in esclusiva, giacché l’altro potrebbe non solo goderlo e farlo godere, ma anche catturarlo nelle sue brame passionali e portarlo via per sempre. Accade dunque di essere monogamici non per scelta ma per paura di essere abbandonati o di abbandonare, tuttavia nel proprio intimo si sogna con minore o maggiore bramosia di non esserlo, e nel contempo si teme che qualcosa di simile, o di peggio, potrebbe essere instillata nell’intimo del partner.
Per analoghe ansie e timori abbandonici, la monogamia può essere violata al fine di sentirsi più tutelato dal miraggio di un harem, al maschile, come al femminile che garantirebbe una specie di pseudostabilità erotica e relazionale. Per motivi dunque non solo archetipici, quali la tendenza originari alla poligamia e alla poliandria, ma anche di ordine e di disordine individuale, diventa una via nevrotica e disturbante per affrontare i propri fantasmi e abbandonici e persecutori. Ecco allora che una instabilità affettiva nella famiglia originario, e in particolare un vissuto di estrema ambivalenza verso un genitore troppo ambivalente o anaffettivo, viene poi proiettato sul partner della propria famiglia potenziale o in essere, per cui, reduci della infausta e no elaborata esperienza negativa famigliare, si diventa o gelosamente ossessivi, per cui forzosamente e nevroticamente monogami, oppure traditori seriali, o avvezzi a tresche con amanti fissi o vari. Per cui bisogna differenziare una tendenza poligamica, poliandrica o propriamente orgiastica – giacché anche questa modalità era comune nei costumi della sessualità sacra originaria – da una confusione psicoaffettiva e sessuale dovuta a regressioni e a proiezioni generate da instabilità famigliari personali. La tendenza al ‘poliamore’ o alla sessualità promiscua, che sia archetipa e originaria, o nevrotica e personale, genera tensioni famigliari che coinvolgono i figli e i parenti più vicini. Tuttavia è pur vero che possono essere proprio i figli e i parenti prossimi ad innescare moti di fuga dalla famiglia monogamica, qualora la coppia genitoriale non abbia una sufficiente capacità di preservare ed elaborare la libido.
La crisi della famiglia contemporanea, i cui esordi possono farsi risalire al secondo dopoguerra, è da considerarsi come una reazione alle costrizioni libidiche famigliari, laddove queste risultavano particolarmente oppressive, e sotto l’egida di un arcaico quanto persistente maschilismo patriarcale. La rivoluzione della donna in tal senso ha comportato anche una rivoluzione della famiglia ed un nuovo ruolo dei figli, i quali sono diventati sempre più rivendicativi per la conquista di un loro futuro anticonservativo quanto antigenitoriale.
L’autorità è stata messa in crisi, e quando ciò avviene, non può considerarsi solo un male. Ma ciò non ha risolto il problema della famiglia, semmai lo ha posto per la prima volta in forma così emancipata e politicamente cosciente nella vita e nella storia della società. A questa coscienza sociale non è però ancora corrisposta la costruzione di una nuova coscienza psicologica, ed anzi questa è stata gettata in una crisi che ha visto l’emergere, quasi epidemico, di molteplici forme di patologie e infelicità ‘a sfondo famigliare’. Soprattutto alla crisi della famiglia, e quindi del senso altruistico e comunitario da essa sotteso, è emerso uno slancio soggettivistico ed egoistico, all’insegna di ciascuno per se sé, che poi sfocia in multiformi disturbi della vita relazionale, all’insegna del narcisismo patologico, non solo come patologia, ma come spietata scelta di vita egosintonica.
In questo impasto trasformativo che ha generato il bene e il male, come in una ebollizione alchemica dalla quale non si sono coaugulate o disciolte le sostanze, sono emerse forme psicoculturali riparatorie e tentativi di aggiustamento famigliare spesso goffi o effettivamente disfunzionali ( ce ne occuperemo in un successivo paragrafo).
Osserviamo lo spettacolaristico diffondersi cultura del libertinaggio e del permissivismo come liberazione di tabù, che prevede la coppia aperta, l’amore libero o multiplo, i privé, l’avventura occasionale con sex-worker (anche in coppia) non può essere la chiave risolutiva del compromesso, ovvero offrire la valvola di sfogo per restare monogamici e al tempo stesso lasciarsi andare… Non può esserlo nella misura in cui si agisce e si fantastica senza avere una sufficiente consapevolezza psicologica della relazione, quindi di se stessi, dell’altro e della natura umana in generale (inconscio collettivo).
Ora, non si può pretendere che siamo tutti psicologi e che per stare in coppia bisogna studiarsi almeno Freud e Jung, si tratta invece di acquisire e valorizzare una sensibilità psicologica tra i partner. Jung spiega molto bene ciò nel suo breve saggio “Il matrimonio come relazione psicologica” (1931), per cui è come se uno fosse lo psicologo dell’altro e non solo l’amante. Ecco perché un percorso psicoterapeutico può consentire di esperire in cosa consista una relazione psicologica, la quale per quanto si sviluppi con il proprio terapeuta offre la possibilità di esperire possibilità di ascolto e di confronto che si aprono alle profondità dell’altro, ove ambivalenze e contraddizioni non sono più vagliate in termini giudicanti e moralistici, ma attraverso uno sguardo psicologico, ossia simbolico, immaginativo e analitico che tiene conto dei vissuti famigliari, del senso dei quadri psicopatologici e disturbanti, e del fatto che siamo esseri umani, con le nostre negatività, debolezze e ambivalenze. Amarsi in coppia e nella famiglia vuol dire mantenere acceso il focolare che riscalda e illumina il profondo dell’anima, e non restare avvinti dalla superficialità e dalle apparenze. Le nevrosi e gli errori famigliari emergono e si acuiscono quando viene a mancare la giusta attenzione psicologica e si considera il coniuge e gli altri membri della famiglia (in particolare i figli) solo per ciò che fanno e dicono, senza riuscire a interrogarsi su cosa hanno dentro e perché. Ci si interroga per lo più sui propri errori, o quelli altrui, ma difficilmente ci si rende consapevoli dei ‘fantasmi’, ovvero di quelle forze o personizzazioni invisibili, occulte, che agiscono nell’inconscio dell’altro, in quanto interiorizzazioni e proiezioni individuali, o in quanto agenti archetipici che possono manifestarsi in forme differenti nelle soggettività individuali. Ciascuno è ‘fatto così’ non solo perché fa parte o perché faceva parte di una famiglia, ma perché c’è qualcosa di assolutamente suo, di unico e di irripetibile. Le nevrosi famigliari e tra coniugi nascono nella misura in cui il Sé autonomo e autentico (etimologicamente ‘il vero in se stesso) viene soffocato dalle turbolenze delle istanze famigliari, quanto più ne sono ignoti i ‘fantasmi psicologici’ sottostanti. Questa ignoranza del mondo interiore dell’altro e della famiglia comporta di riflesso anche una ignoranza di sé, in quanto la famiglia di cui si è parte è anche una parte di sé. Il confronto con la famiglia, quando diventa profondo, consente poi di fare emergere quelle parti di sé che non appartengono alla famiglia, ma esclusivamente a se stessi, ed è solo così che può emergere la propria personalità in modo indipendente ed autentico, ed attraverso di essa sarà possibile trovare la via migliore per affrontare i problemi coniugali e famigliari.
Aggressività e libido famigliare
La libido, come energia naturale, nell’essere umano si psichicizza e diventa anche energia simbolica e culturale. Nello stadio di natura – o nella notte dei tempi – per soddisfare la pulsione libidica si poteva ricorrere alla violenza (e purtroppo ciò i retaggi di quella violenza libidica in massima parte maschile, si manifestano ancora oggi). Lo stupro primordiale, il ratto delle donne, si ritrovano negli echi ancestrali del mito e delle leggende storiche. Tra gli dei lo stupro era cosa comune, così come lo era tra le tribù in guerra, e con molta probabilità la guerra stessa nasceva in origine per ‘questioni di donne’: quelle più rare, in quanto più giovani, belle e quindi con più possibilità riproduttive.
Ma da un punto di vista psicomitico, le fantasie di stupro, e non gli atti concreti, vanno considerati sotto l’egida di Pan, il dio selvatico che, tra pathos, eccitazione e paura va a caccia di ninfe, o viene da esse attratto centro reti di seduzione e turbamento che costringono l’istinto a liberarsi e a psichicizzarsi (si veda di Hillman, Saggio su Pan, 1972). L’aggressività in relazione alla sessualità, nella dialettica di Pan e le ninfe richiamo quel ‘saltarsi addosso’ istintuale che fa perdere la coscienza ‘civilizzata di sé’, il pudore, la maschera, e ci rende sufficientemente animali per poter fare sesso. Non si tratta di una pulsione brutale volta allo stupro, ma di un’armonizzazione che Pan e le ninfe inventano con i loro riti e misteri magici tra gli anfratti boschivi e le sorgenti tra aggressività e tenerezza, che sono entrambe istintuali. La carica aggressiva deve però essere serbata e a ciò pensa Pan, con la sua paura panica che lo porta ad eccitarsi di nascosto, in un selvatico isolamento dagli altri, che lo preserva dalla confidenzialità e da una convivenza coscienziale e coscienziosa con gli altri. Poi con la grazia delle ninfe le pulsioni aggressive e sessuali di Pan vengono orientate alla danza e alla musica (Pan suona il flauto) ove la passione erotica può sgorgare spontanea e libera dalle inibizioni degli ingorghi libidici famigliari e della società Per disinibirsi, la pulsione erotica h bisogno di una carica aggressiva armonizzata, ma non neutralizzata, negata o orientata alla soddisfazione del bisogno in senso egoistico e narcisistico, come stupro sessuale e affettivo dell’altro. Ci sono volute ere ed epoche affinché Pan e le ninfe riuscissero ad affiorare nell’inconscio collettivo recando i loro effetti naturali, liberatori e salutistici, ma altre spinte tendono da sempre a ricacciarli nel profondo. Così, nell’Ethos e nell’Imago cristiana Pan, con il suo aspetto caprino e cornuto, eppure bipede, è diventato il diavolo, e le ninfe, fino ad epoche molto recenti delle ninfomani, o delle raffigurazioni edulcorate a sfondo pedofiliaco. Quando Pan e le ninfe non riescono a compiere i loro riti, volti a coniugare aggressività e amore, la sessualità può inibirsi, generare disfunzioni sessuali o prendere vie perverse ed anche estremamente violente. Così fu per il rapimento della principessa Europa, per Elena di Troia, per il ratto delle Sabine. Evidentemente lo stupro e il ratto di guerra non può essere parallelo a sentimenti morosi, per cui la sessualità viene consumata come atto distruttivo e di dominazione dell’altro
Queste grandi narrazioni rivelano che la famiglia in origine nasceva attraverso fatti di sangue, e che questi potevano essere mitigati con vantaggio solo attraverso ‘il dono’ e quindi con il tabù dell’incesto. Il dono va consegnato integro, non consumato e da ciò in epoche successive si sono rinforzati anche i tabù sulla verginità della donna da marito, e sull’inammissibilità assoluta del suo tradimento, come se si trattasse del più vergognoso dei peccati. Gesù Cristo, che non scriveva mai, lo fece solo una volta tracciando sul selciato la famosa frase a difesa dell’adultera che stava per essere lapidata “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Possiamo interpretarlo come un peccato, quello del tradimento che è in potenza nella natura umana, ma si tratta di una natura che ha in se stessa la sfida a distaccarsi dalla natura, a considerarsi vicina al cielo e allo spirito, e quindi che anela alla fede e alla fedeltà. La famiglia diventa dunque un patto sacro, e ha al suo epicentro il tabù dell’incesto. Ma come è possibile che i primi esseri umani abbiano sentito a livello universale che la libido tra consangunei andava sottomessa a regole e a tabù? Una risposta può venirci dall’etologia e dalla psicologia.
Come ha evidenziato Konrad Lorenz nei suoi studi su L’aggressività (1962), negli animali e nell’uomo, ovvero Il Cosiddetto male (1963) in ogni specie l’aggressività è insita nell’istinto di sopravvivenza individuale e collettivo. Garantisce la difesa da altre specie, la possibilità di procurarsi il cibo, anche a spese di altre specie, e inoltre mantiene un giusto grado di competizione tra membri della stessa specie e della stessa famiglia. Per una mandria è fondamentale un capobranco, divenuto tale non tanto perché è stato il più aggressivo, ma perché ha saputo orientare l’aggressività nel modo più costruttivo. La psicologia ha indagato poi sulla convergenze tra aggressività e pulsioni sessuali, le quali consisterebbero in parte in un fenomeno di scarico delle tensioni aggressive attraverso il piacere libidico. Se però queste tensioni aggressive non ci sono, o sono carenti, o vengono assorbite da attività meramente distruttive, la libido risulta carente o viene intrisa di odio, avidità, ansia di potere e dominazione. Occorre una sorta di sistema omeostatico che governa le pulsioni aggressive al fine di poterle convertire in una carica libidica creativa, dalla quale possano poi nascere sentimenti di amore e di attaccamento.
Si apre il vasto scenario del sadomasochismo – sul quale ritorneremo, anche attraverso ‘casi clinici – come via estrema per scatenare una aggressività repressa ed erotizzarla al fine di evolvere le pulsioni sessuali. Si tratta di una fantasia erotica e della sua messa in atto che consente di identificarsi o con il bambino punito ed umiliato, o con il genitore punitivo e umiliante, nel tentativo estremo di preservare l’attaccamento e la relazione amorosa per quanto questa sia tormentata.
Attaccamento e potere
L’amore e l’attaccamento sono fattori essenziali nella specie umana perché la prole necessita di un lungo periodo di svezzamento e di cure. La madre è la prima nutrice e protettrice dei figli e quindi l’uomo deve provvedere affinché essa possa svolgere questo ruolo amorevole quanto oneroso. Ciò comporta un impegno energetico della coppia genitoriale che ha dato luogo questioni di potere e non solo di amore. L’uomo è diventato padrone della donna e dei figli, e in ciò bisogna individuare una prima grande frattura psicoantropologica che nasce in seno alla famiglia, quale dissidio tra amore e potere che si ritrova da sempre in ogni tragedia famigliare.
Ma torniamo alla questione dell’aggressività e di come la necessità di neutralizzarla e orientarla verso l’amore sia connaturata al tabù dell’incesto. Ci sembra difficile pensare che i padri e le madri primitive avessero un istintivo desiderio di abusare dei loro figli, eppure vi rinunciarono per ragioni etiche, morali e di evoluzione sociale. Se così fosse vorrebbe dire che erano preesistenti motivi culturali e valoriali che inducessero ad un voto di castità dei consanguinei. Doveva dunque esserci nell’istinto umano già preesistente una disposizione a reagire alle dinamiche famigliari, in seno alle quali, come abbiamo visto si sviluppano necessarie forme di gestione dell’aggressività, anche a partire dalla condivisione del cibo che va condiviso e che quindi non si può sottrarre agli altri membri della famiglia al punto di farli morire di fame (cosa che invece la guerra tra famiglie, fratrie, clan, tribù e popolazioni si è sempre praticata attraverso la guerra quale forma collettiva ed estrema di aggressività e violenza organizzata). D’altra parte l’aggressività intrafamigliare, per quanto domata, può imboccare vie psicopatologiche e disfunzionali fino al punto di violare lo stesso tabù dell’incesto.Ma questa violazione non è da considerare solo in termini di atto violento, quanto come fantasia rimossa che persiste nell’inconscio individuale e famigliare. Per quanto la sessualità tra consanguinei susciti sentimenti di disgusto, se non di orrore, essa è insita nei primordi archetipici dell’infanzia dell’umanità, ed ha anche un suo vissuto negli attaccamenti edipici dell’infanzia dell’individuo nella famiglia. A livello coscienziale invece si fortificano i fattori di spostamento e repulsione del desiderio erotico intrafamigliare. In effetti sono proprio tali sentimenti repulsivi che inibiscono le fantasie consce e il passaggio all’atto sessuale verso un parente stretto. Già Malinowski, nei suoi studi etnologici sulle società primitive dell’Oceania, aveva osservato che la familiarità quotidiana inibiva il desiderio sessuale tra consanguinei.
Nei primordiali nuclei famigliari, nei quali, per ragioni psicofisiologiche, la prole veniva allevata per un tempo assai superiore rispetto a quello di qualsiasi altro mammifero, la gestione dell’aggressività parentale comportava che, nella stragrande maggioranza dei casi, le tensioni aggressive non riuscivano a trasformarsi in una carica libidica verso i consanguinei.L’aggressività famigliare doveva poi essere gestita per mantenere una giusta condivisione dello spazio territoriale – la casa famigliare – e per impedire l’invasione di estranei, che fossero esseri umani, animali o spiriti maligni. L’aggressività veniva poi spesa per procacciare il cibo per tutta la famiglia, condividendo intorno al desco alimentare, il bisogno primario: quello di mangiare, che può essere meglio soddisfatto attraverso un gruppo umano che unendosi diventa più forte e produttivo. Questi vincoli, condivisioni, ritualizzazioni che sono possibili solo attraverso un indirizzamento dell’aggressività e non in un lasciarsi andare ad essa secondo i propri bisogni e desideri egoistici individuali, hanno determinato un imbrigliarsi della libido tra consanguinei. In tal modo è stato un sacrificio minore di quanto si possa immaginare quello di ‘donare’ le proprie giovani donne alle altre famiglie, considerando poi che in tal modo si otteneva la possibilità di ottenerne altre in cambio con una carica libidica tutta da scoprire, non essendo stata imbrigliata dalla gestione intrafamigliare dell’aggressività. Si pone dunque la questione della autorità famigliare, cioè il capofamiglia che ha il potere di domare l’aggressività intrafamigliare di indirizzarla verso l’esterno e di utilizzarla al suo interno per punire e sottomettere secondo un punto di vista volto a preservare il suo dominio egoico e quello della sua famiglia nella società, in termini di onore e potenza famigliare.
Il conflitto coniugale
Per quanto Levi-Strauss voglia considerare che nel primitivismo la ‘giovane donna’ sia una sorta di ‘bene rarificato’ che conviene gestire in modo produttivo e condivisibile, nell’interesse dell’individuo e della società, va osservato che intorno al tabù dell’incesto sorge uno psichismo intriso di fantasie e sentimenti di straordinaria potenza, che mai potrebbero derivare da un bene materiale, per quanto possa trattarsi di un cibo di grande prelibatezza. Le dinamiche di potere autoritario si scontrano in un vortice conflittuale che tende a responsabilizzare e a deresponsabilizzare, a trovare un capro espiatorio, a rendersi vittima o carnefice.
Sin dalle sue origini in seno alla famiglia covano invidia, gelosia, tenerezza, attrazione, repulsione, generando fantasmi che a loro volta chiedevano di essere ‘trattati’, ritualizzati, regolamentati per limitarne gli effetti virulenti o per ingraziarseli. In tal senso la famiglia partecipando ai riti si costituiva ‘parte civile’, nel ‘consorzio sociale’. L’autorità e il potere a questo punto, non erano più solo nelle mani del capofamiglia, il quale diventava vicario di poteri divini, stabiliti dal tramandarsi di padre in figlio, da famiglia a famiglia. Ecco che in origine raramente l’accoppiamento nel ‘matrimonio primordiale’ poteva essere una libera scelta, esso era imposto a seconda degli interessi famigliari, del clan e della autorità sociale, sacralizzata quanto totalitaria. E’ innegabile che il tramandarsi sacrale e politico, spirituale e secolare dell’auctoritas patriarcale abbia instillato in termini psicoculturali l’imago della donna come un bene pregiato da possedere e da distribuire agli uomini secondo criteri produttivi e di potere. Ciò sanciva che la donna non avesse alcun diritto di esprimere i suoi desideri, con l’aggravante di considerare tali eventuali desideri come intrinsecamente peccaminosi, portatori di tentazione, perdizione e rovina. Tuttavia lo psichismo femminile, poteva essere oppresso nella vita concreta, negli atti, nei comportamenti, ma non appunto nella psiche. La femminilità restava comunque carica di un mistero originario inafferrabile, indicibile, impensabile. La psiche stessa, secondo James Hillman, ha la sua originarietà essenziale nel femminile. Il mito originario teogonico della Grande Madre sovrasta lo spazio e il tempo facendo apparire tutti glia altri dei maschili per quanto ultrapotenti come dei figli. Ci vorranno lunghe ere affinché diventassero dei padri, e dei padroni assoluti della totalità, come nei monoteismi.
Per quanto, anche tra gli alti ranghi, i Re e i potenti, la donna fosse oggetto di dominazione, e la sua libertà interiore ed esteriore fosse aggravata da tabù e credenze misogine, lo psichismo femminile, non è stato mai ingabbiato, ed anzi, proprio per il fatto che lo si costringeva in una gabbia, evocava potenze incommensurabili nel bene e nel male. Parsifae che si innamora del toro bianco che suo marito, il Re Minosse, ricevette in dono da Poseidone, e si nascose all’interno di una statua di vacca per farsi da esso possedere, costituisce un’immagine originaria del mito che vuole ricondurre l’istinto sessuale in una costellazione di trascendenza liberatoria, tra animale e spirito.Questi accenni alle drammatizzazioni nelle famiglie mitiche servono per rammemorarci di come il dissidio uomo-donna in seno alla famiglia sia universalmente espresso nelle narrazioni e nelle teogonie del mito.
La lotta uomo-donna esprime una tensione aggressiva che tuttavia contribuisce alla ‘corrente energetica’ della vita amorosa. D’altra parte è anche la vita amorosa che consente di esprimere l’aggressività e di indirizzarla in una direzione creativa e non distruttiva. L’aggressività non è solo violenza, ma anche azione trasformatrice e generativa. Come quando si aggredisce la materia, le pietre ad esempio per costruire case, o si spacca la terra per piantare il seme o per far zampillare l’acqua, o si incide e si ricuce la carne per guarirla… L’aggressività tra gli esseri umani può anche essere espressa come indignazione e come ‘rabbia giusta’ laddove sia necessario difendere la libertà, dire no ad un usurpatore. Senza aggressività non può esserci amore, perché amare vuol dire incidere la vita dell’altro e la propria. Così è dalla crescita di una coscienza d’amore che sono potute nascere lotte di giustizia e di liberazione, che hanno richiesto ‘per amore’ aggressività. E’ sempre per l’amore si può e si deve recidere qualcosa nella propria vita, in quella dell’altro e degli altri. E’ questo il caso della rivoluzione della donna che ha inciso un nuovo corso della storia e ha reciso le epoche precedenti, dando luogo a processi di trasformazioni che ora sono ancora agli esordi. La primordiale mitica guerra tra i sessi fa irruzione nella storia e ne muta i destini. Si sono trasformati i costumi sessuali, i ruoli famigliari e sociali, le scienze, l’economia, la psicologia, la pedagogia, la politica… ed anche la famiglia. E’ un processo ancora in corso e che ha ancora molta strada da compiere lungo la quale compaiono nuove sfide e nuovi problemi psicologici, sociali e culturali. La famiglia in quanto cellula del tessuto psicosociale è la forma di coesione umana che da semprew registra nel bene e nel male i processo di trasformazione che dal mito sono pervenuta nell’evoluzione della storia umana.
Il focolare domestico
La relazione erotica uomo donna evoca lo psichismo, è forza dell’istinto che trascende l’istinto stesso, cosicché le religioni delle culture d’origine sono sempre fortemente sessuate. Sesso e spirito sono ancestralmente biunivoci per quanto restino separati. Per quanto la religione abbia avuto funzione armonizzatrice, essa è stata anche funzionale alle strutture di dominio, per cui ha comunque alimentato il dissidio tra amore e potere che sta alla base delle contraddizioni e delle commistioni famigliari.
Abbiamo osservato come la sussistenza alimentare e la condivisione del cibo siano stati fondanti, insieme alla normatizzazione della relazione tra aggressività e sessualità per la nascita originaria dell’istituzione famigliare. Secondo Levi-Strauss una linea che segna il confine tra l’animale, quale scimmia o ominide e l’umano dotato di un principio culturale è nella preparazione del cibo, come si intuisce dal titolo del suo famoso libro Il crudo e il cotto (1964). Il fatto di arrostire il cibo, implica una gestione del fuoco condivisa, quindi una sua sacralità originaria, per cui l’alimento non è solo un nutrimento materiale, ma anche simbolico. La cottura attraverso la bollitura nell’acqua comporta un rapporto più trascendente con il cibo, in quanto vi è una distanza dalla caustica forza naturale del fuoco, e il calore acqueo genera vaporosità e fantasie che vagano dal mondo uterino – aqua mater – e fumosità volatili che si stemperano negli spazi celesti. L ‘essere umano come animal cuisinier, diventa anche un essere capace di cultura, cioè un animale simbolico. Ma a tal fine ha bisogno del fuoco e di una famiglia da mettere intorno al fuoco, che riscalda, nutre e illumina. Anche per questa gestione del focolare domestico la conversione tra aggressività e sessualità va simbolizzata e regolamentata. Nella mitologia greco-romana la dea del focolare che stabilizza la famiglia è Estia, sposa di Mercurio, del quale compensa l’estrema instabilità del ‘fuoco alchemico’ volta e scoprire, esprimere e trasformare. Ma come hanno fatto gli esseri umani a scoprire concretamente il fuoco?
Il mito narra che Prometeo rubò il fuoco a Zeus e lo donò ai mortali la rabbia dei Zeus punì atrocemente sia Prometeo e sia gli uomini. Prometeo fu fatto incatenare nudo su una rupe, consentendo ad un’aquila di divorargli il fegato che poi gli ricresceva di notte. Per i mortali invece Zeus commissionò ad Efesto di forgiare una donna bellissima e sensuale, che però recava con sé una vaso pieno dei malattie, disgrazie disastri di ogni tipo, questa era Pandora. Ancora una volta lo psichismo femminile nel punire la prometeica verticalità maschile, che sfida gli dei, costringe allo psichismo, e quindi ad una patologizzazione animica che non è né animale, né spirituale, ed in un certo senso non è neppure umana, a meno che non si voglia equiparare umanismo e psichismo. Ma mentre l’umanismo è da intendersi sul piano della coscienza, del pensiero con le sue glorie e le sue aberrazioni lo psichismo va al di là, e sconfina oltre la realtà, nell’onirico, nella fantasia, nell’inconscio, nell’anima. Il mito prometeico, e in generale tutte le mitizzazione del fuoco, hanno una portata archetipica immensa, giacché ci indica come il fuoco, non solo porti la cultura negli umani, ma anche come li avvicini alla trascendenza, e quindi al confine invalicabile dello spirito, regno degli dei.
Eppure, se ci chiediamo come veramente, e non solo miticamente gli umani abbiano scoperto il fuoco, intorno al quale organizzare la tribù e i distinti focolari domestici, dobbiamo pensare ad una qualche esperienza pratica, magari fortuita. Ad esempio al divampare di un incendio prodotto da un fulmine, e quindi dalla raccolta di alcuni rami ancora ardenti dai quali poi attivare una pira. Tuttavia resta il fatto che non si poteva aspettare l’incendio da fulmini, ovvero donato da Zeus, ma che si doveva potersi procurare il fuoco in modo indipendente. Ecco allora che Carl Gustav Jung nel suo celebre libro Libido, simboli e trasformazioni (1912/1951), propone il seguente lucido ragionamento. Secondo Jung gli esseri umani avrebbero avuto modo di constatare a livello sensoriale che l’atto sessuale comportava un riscaldamento, sia nell’attivarsi del desiderio e sia nel suo appagamento. A tal fine, sia nella copula e sia anche nella soddisfazione masturbatoria, occorre un’attività di sfregamento delle zone erogene, genitali e non, ripetuta e relativamente ritmata.
Questo contatto mobilizzato e continuato provoca calore fino al piacere orgasmico. Non a caso le metafore che riguardano la sessualità sono sempre dense di simbologie e metafore che richiamano, il calore, la focosità, l’incendio dei sensi e dell’anima. Anche l’amore sacro, non sessualizzato, è rappresentato con simboli afferenti al fuoco, così come ‘la fiamma dello spirito santo’. Quindi per una abduzione creativa e traspositiva dell’esperienza erotica alla realtà pratica, è ragionevolmente ipotizzabile che gli esseri umani abbiano pensato a sfregare oggetti con l’intento di creare calore e, osservando che l’attrito effettivamente recava successo all’esperimento, lo hanno perfezionato fino a generare le prime scintille con pietre e legnetti adatti allo scopo. Ed ecco il fuoco, il fuoco che viene dal sesso e dallo spirito, che porta cibo, calore, luce, produttività, fecondità. Ecco il fuoco per forgiare i metalli, la civiltà, ed ecco la famiglia intorno a quel fuoco, la famiglia che è stata costretta ad industriarsi e a convertire le pulsioni libidiche in creatività, organizzazione capace di governo al suo intento e di essere cellula che a sua volta governa e viene governata dal tessuto sociale. Ma senza il tabù dell’incesto, non vi sarebbe stata abbastanza energia per dedicarsi al fuoco, forse sarebbe stato più comodo continuare a mangiare crudo, a fare sesso come capitava, e, in definitiva a restare animali, con branchi e orde di comodo piuttosto che con famiglie che danno tanto da fare.
Va poi considerato che un unico grande fuoco per una intera tribù ha un senso extrraquotiano cerimoniale, sacro e festoso, ma non consente di preservare l’ordine quotidiano nelle attività di sussistenza e nell’accudimento della prole. Occorreva quindi suddividersi in nuclei famigliari intorno a piccoli focolari domestici, in modo da consentire una condivisione una comunione tra ‘pochi intimi’, e più funzionale ai bisogni del quotidiano. Potremmo dire che dal calore della libido framigliare è nata l’invenzione e la gestione del fuoco, e che a sua volta il fuoco ha indotto a stabilire regole, prescrizioni e tabù adatti alla coesione famigliare e alla sua collocazione funzionale nella comunità.
Narcisismo e sviluppo della personalità
C’è da chiedersi cosa ci abbia guadagnato l’essere umano a valicare quel confine che da animale lo ha reso umano… che si tratti veramente solo di un tipo di scimmia che senza cultura e organizzazione si sarebbe estinta? Oppure forse si tratta di un’animale che tra i suoi bisogni connaturati, archetipici, innati ha anche un suo specifico bisogno di amore, e che a tal fine deve necessariamente avventurarsi nelle terre di mezzo dello psichismo e dell’anima? E se questo amore non riguardasse solo la relazione umana in senso altruistico e dell’attaccamento, ma invece fosse dato anche dall’amore per se stesso? Narciso in tal senso non è solo il mito degenerativo dell’amore relazionale (oggettuale), ma è anche, come ha evidenziato Freud, l’amore autoriferito, per il costituirsi di una propria soggettività separata, la quale è la base per poter sviluppare una relazione oggettuale ‘genitale’, ovvero generativa. Jung non ha mai fatto espliciti riferimenti al narcisismo, quanto piuttosto alla lotta che l’individuo compie per ‘individuarsi’, quindi diventare se stesso pur riconoscendosi come parte del tutto. Il focolare domestico nutre e protegge, ma nel contempo assorbe le energie individuali e ostacola lo sviluppo di una propria autentica personalità. Per conquistare se stessi allora ci si imbatte nell’ardua sfida al focolare domestico, entro ambivalenze, che possono essere anche tormentose, tra odio e amore. Il romanzo famigliare si fa dramma o tragedia e brucia in un fuoco libidico che oscilla tra sacralità e dissacrazione, tra angeli e demoni del focolare. Il complesso forno alchemico famigliare, tra gioie e dolori, consolazioni e timori, in ogni sua evoluzione e trasformazione antropologica, storica e sociale, propone sempre la stessa sfida archetipica, ovvero dio riuscire a ‘sfornare’ la propria autentica personalità senza che resti troppo cruda o bruciata. L’utero famigliare è il luogo angusto quanto protettivo e nutriente per una nuova rinascita, le sue tossine e i suoi veleni possono fare abortire o deviare una vita in essere, e a ciò ciascuno è chiamato a dare una risposta. Il mito prometeico dell’eroe, della sua vittoria e infine della sua sconfitta nel martirio, esprime la conquista del proprio Sé inglobato nell’inconscio famigliare e collettivo. Le difficoltà e i drammi famigliari non possono essere affrontati se non attraverso del mito dell’eroe e dell’orfano che si allontana dal focolare domestico, si autonomizza e rischia sulla sua vita per ritrovarne un’altra più amabile e più vera. Se non si ha accesso a questa ardua possibilità di individuarsi si resta imprigionati nella ragnatela psichica famigliare e ci si dibatte in modo autodistruttivo e distruttivo, secondo un narcisismo regressivo e mortificante, per se e gli altri, dentro e fuori dalla famiglia.
La famiglia transgenica e le sue varie forme mutanti
Volendo usare una metafora relativa alla produzione agricola possiamo dire che mentre le mutazioni delle strutture famigliari durante l’evoluzione umana seguivano processi organici, tra conservazione e progressione, la famiglia contemporanea sembra essere concepita attraverso processi transegenici. La cultura seleziona e produce nuove semenze famigliari, coltivabili secondo le specifiche esigenze della soggettività. Se un tempo i soggetti dovevano assoggettarsi alla famiglia, e quindi rinunciare alle loro tendenze e aspirazioni, ora è la famiglia che tende ad assoggettarsi al soggetto. A tale riguardo viene subito in mente la famiglia omosessuale o transgender, ma ciò riguarda comunque processi evolutivi basati sul genere, quindi sulla generalità, e non sulla soggettività. La crisi e la difficoltà di fare famiglia è dovuta al timore che la famiglia non possa assoggettarsi alle proprie esigenze e non viceversa. Farsi una famiglia vuol dire ottenere di realizzare un nucleo affettivo adatto alle proprie esigenze, che consenta un sufficiente grado di controllo e condivisione, ma nel contempo anche di libertà e di individualità Bisogna allora immaginare la famiglia come un albero che nasce da innesti e commistioni transgenetiche affinché produca frutti specifici ed esclusivi, che in natura non possono esistere, ma per le proprie esigenze sì. L’impresa non è facile e presume o rinunce al progetto, strategiche procrastinazioni, oppure uno gettarsi in ardui esperimenti, talvolta dettati da una euristica di pancia, altre volte più fondata su ragionamenti di convenienza. Ma come si sa, quanto più gli esperimenti sono complessi, tanto più sono destinati a fallire La famiglia originaria primordiale era necessariamente più organica in quanto più adattiva alle necessità imposte dalla natura. La famiglia attuale si è gettata – in modo purtroppo consapevole – nel regno del desiderio personale, con tutti rischi e le delusioni che ciò può comportare, ma anche con un grado di libertà coscienziale e soggettiva che mai poteva essere immaginata nelle famiglie di un tempo. La famiglia Millennium secondo un gergo che indica quella classe di età divenuta adulta nel terzo millennio e nel mondo occidentale, è una famiglia fragile, pericolante, esplosiva, dispersiva, avvincente, deludente quasi che si tratti del laboratorio di apprendisti stregoni che ne combinano una dopo l’altra senza ancora aver capito un gran ché di quel che salta fuori dai loro alambicchi, a loro volta interconnessi in una realtà mediatica e virtuale. Sposarsi o no sposarsi, separarsi, divorziare, tollerare gli amanti, le scappatele, consentire ai figli di fare sesso come e quanto vogliono, di fumare canne e avere condotte spregiudicate e ai limiti della ‘costumanza’ è una sorta di modus vivendi nel quale le famiglie da operatrici totemiche del tabù, diventano opportunità antitotemiche per liberarsi da tutti i tabù. Come ben si sa la troppa libertà determina più rischi, ma anche più possibilità di mutazione e di scoprire nuovi modi e nuovi mondi. Se prima il senso della famiglia era nella ‘ stabilità, che recava sicurezza ma anche nel sacrificio e nel votarsi ad una limitazione per il resto della vita della propria libertà di scegliere, adesso la famiglia ideale sembra quella che anche a costo di essere instabile, provvisoria, separata, alterata, abbia come senso ultimo il mantenimento della propria libertà di scegliere. D’altra parte affinché una famiglia sia centrata sull’amore, e nonostante le sue difficoltà possa crescere e durare a lungo, deve poter considerare sempre aperta la possibilità di scegliere. La famiglia dura quando consente la possibilità di sceglierla ogni giorno, e non di subirla come costrizione. L’essere scelti dal desiderio dell’altro può essere considerato nel senso di Lacan per il quale “L’inconscio è il desiderio dell’altro”, che in termini semplici vuol dire che ci si sente di esistere come soggetti specchiandoci nell’altro che ci conferma e ci ama. Il bambino vuol sapere come è nato, se sé stato scelto, voluto, desiderato, perché è fondamentale per la sua individualità che possa riconoscersi nel desiderio dei genitori. La famiglia che conferma i suoi membri in quanto ciascuno è nel desideri dell’altro può avere qualsiasi forma e qualsiasi durata, ma la sua generatività dipende dall’essere coesa nel desiderio e non oltre. Il fatto che la famiglia non costringa più alla stabilità, e che le sue crisi mirano a destabilizzarla come mai prima, indica che vi è in corso una transizione psicoculturale affinché le relazioni di parentela non siano più assoggettate a schemi che limitano la possibilità di scegliere e di essere prescelti.
Recentemente ho letto due interessanti libri sulle evoluzioni e involuzioni della famiglia che mi hanno fatto molto riflettere. Il primo è di Massimo Ammaniti, La famiglia adolescente (2016) il secondo è di Giorgio Nardone, Modelli di Famiglia (2001). Con un taglio epistemologico diverso entrambi gli autori offrono un importante quadro clinico della crisi della famiglia e delle ricadute di ciò sulla psiche individuale, nonché sulle interazioni disfunzionali che si determinano nello spazio sociale. Hanno però in comune l’insistenza nel mettere a confronto la famiglia di una volta (intesa come di cinquanta anni fa circa) con la famiglia attuale, la quale sarebbe il risultata da un sommovimento liberatorio, svolto con troppa superficialità e irruenza rispetto agli schemi del passato. I ruoli famigliari risultano confusi all’insegna di una eccessiva permissività e nel contempo di un iperprotezionismo che mira a tutelare i giovani dagli eccessi e dalle tentazioni devianti che la società offre loro, e dalla paradossale possibilità di avervi facile accesso per via del permissivismo. I genitori si prodigano di rivelarsi quali amici paritari dei figli, dando in definitiva a loro l’ultima parola. Capita sempre più spesso che i genitori si consultino con figli adolescenti per chiedere loro cosa debbano fare, piuttosto che il contrario. Cosicché i genitori appaiono deboli e incapaci, in preda a frustrazioni che rendono impossibile sia di assumerli a modello, sia di negarli in quanto modello, in quanto risultano modellati più come adolescenti che non come adulti. I figli non temono le punizioni, o meglio non ne ricevano, e spesso sono loro a consentire di doverle somministrare al genitore a scopo rieducativo. Ecco allora che gli adolescenti si sentono disorientati e tendono a ripiegarsi in se stessi, a diventare alessitimici, nevroticamente introversi e solipsistici, oppure a scatenarsi in condotte devianti e auto lesive (alcool e droghe).
Lo ‘psicodramma famigliare’ odierno deriverebbe principalmente dal fatto che i genitori tentano di esplorare nuove possibilità relazionali intrafamigliare ed extrafamigliare, al fine di evitare che si possano sviluppare gli stessi conflitti, complessi e delusioni che sentono di aver subito a causa dello schema famigliare che hanno dovuto subire quando erano figli. Si trattava di uno schema non già autoritario e patriarcale ma, da questo punto di vista, ormai agonizzante, sfatto, decrepito e che perciò doveva imporsi e resistere al cambiamento dei tempi con compromessi e mistificazioni pesanti. Mentre la società del boom economico, della libertà sessuale, della emancipazione della donna, delle ideologie antiautoritarie si andava divulgando i capifamiglia del dopoguerra continuano a combattere per riproporre le famiglie dei loro nonni, ritenute, per ‘onore di famiglia’ come più sagge e assennate. Così i figli di quelle famiglie conservatrici tardonovecentesche, diventavano nevrotici, complessati, devianti, ma anche portatrici delle istanze del desiderio, autarchici e ribelli. Nella società non sono riusciti più di tanto ad instaurare un nuovo regno edenico similare a quello dei ‘figli dei fiori’, ma almeno nei nuovi tentativi di famiglia si è stati indotti a compensare i torti subiti nell’infanzia e nell’adolescenza con nuovi modelli all’insegna di una idealizzata libertà, che poi ha dato luogo ad un epidemico affermarsi del narcisismo in quanto potere egoico della soggettività che impunemente si può affermare sulla pelle degli altri. L’ambizione al godimento personalizzato, incitato dalla famiglia e insieme dallo spettacolo dei consumi, ha portato al prevalere di dinamiche narcisistiche, per cui dal momento che in famiglia nessuno ha più il potere ciascuno è portato ad affermare il proprio, fino a confliggere con quelle degli altri e produrre relazioni e chiusure affettive patologiche.
Ma tutto ciò non deve spingerci a pensare che in fondo ‘stavamo meglio quando stavamo peggio’ e che quindi lo psicologo clinico o il teorico dovrebbero lavorare per una restaurazione degli schemi del passato. Piuttosto si tratta di osservare e accompagnare gli esperimenti e le mutazioni delle nuove forme di coesione dissoluzione famigliare, affinché se ne possa cogliere e coltivare il senso evolutivo. E’ una fase difficile, nella quale vanno accompagnati gli esperimenti di ‘apprendisti stregoni’ i quali però possono anche portare a nuove e importanti scoperte e mutazioni in senso progressivo.
In particolare, la crisi della famiglia attuale, nonostante i suoi pericoli e le sue difficoltà comporta un intenso patologizzare, per dirla con Hillman, che non vuol dire lasciarsi andare alla patologia, ma ricavare da essa la consistenza e la vitalità dell’anima/psiche. L’erotica famigliare si è destrutturata, ma non è morta, anzi sta lottando, seppure con sofferenza per generare una rinnovata energia vitale. Questo comporta il raffinarsi della sensibilità psichica e quindi il diffondersi di una nuova e più profonda sensibilità della natura psichica e archetipica che determina l’esperienza umana, e la possibilità di renderla più ricca e generativa. Il rischio da investigare, e da considerare come una sfida, sta nell’irrigidimento narcisistico inteso come profittazione egoica che fa fallire la libera sperimentazione famigliare. In tal senso però, il narcisismo va affrontato non solo come una malattia, ma come una opportunità per elaborare vissuti famigliari entro una dinamica di amore e di potere più equilibrato, dove l’amore di sé, verso l’altro e verso il mondo possa trovare vie espressive più fluide. Quella liquidità dell’amore che giustamente il sociologo Zygmunt Bauman ci ha fatto considerare come temibile e dissolutiva, va affrontata e incanalata come fluido di irrigazione vivificante per l’individuo, la famiglia e una società planetaria che mai come oggi deve migliorarsi se non vuole soccombere sotto la dominazione di un Narciso impazzito.
Jung nel citare Goethe e Meister Eckhart osserva che non sempre la fine di ciò che appariva come bene e l’emergere del male sia da considerarsi come un processo involutivo, quindi dice:
[…] ci sono epoche nella storia del mondo (e la nostra potrebbe essere una di queste) in cui un bene deve tramontare, ed ecco perché ciò che è destinato a diventare il meglio appare dapprima un male. Ma questa affermazione dimostra quanto sia pericoloso anche soltanto sfiorare quest problemi; perché è molto facile per il male insinuarsi di soppiatto, semplicemente dichiarando di essere potenzialmente il meglio! (Il divenire della personalità, 1932, Bollati Boringhieri, Vol. 17, pp. 179-180)
Il male che si traveste da migliore è allora il narcisismo, in quanto soggetto che si approfitta della mutazione antropogenetica famigliare per motivi egoici e antirelazionali. Eppure questo elemento parassitario e ostile ad una trasformazione evolutiva in senso migliore per tutti, ovvero altruistica e basata su autorità di amore più che di potere, può diventare anche fattore di perfezionamento evolutivo, a meno che non riesca a distruggerlo prima che si compia. Ma i fallimenti famigliari, l’autosussistenza psichica ed economica da ‘single’ o da ‘senza famiglia’ potrebbero essere considerati come tentativi di rielaborare la coesione tra persone secondo familiarità e sentimenti che non sono necessariamente legati alla parentela e alla sessualità. Vi è una tendenza in atto addirittura verso la famiglia amicale – composta anche da non parenti – in una dimensione comunitaria, abitativa e non, ove ci si sceglie per affinità elettive e si condividono progetti e spazi e tempi che un tempo potevano essere immaginati solo in virtù del nucleo famigliare parentale. Non si tratta di ritornare agli idealismi della Comune sessantottina e all’antipsichiatria antiautoritaria di David Cooper nel suo celebre Morte della famiglia, 1971, ma si lavorare ve immaginare creativamente affinché nuove idealità d’amore, libertà e coesione possano affinarsi e incarnandosi nell’esperienza umana individuale e collettiva. Insomma anche laddove vediamo il dissolversi della famiglia e il suo fallimento, dobbiamo lavorare affinché la relazione umana si evolve attraverso l’amore, che come araba fenice rinasce in forme nuove dalle sue ceneri.
Ed è quindi in senso evolutivo che lo psicologo clinico e il ricercatore dovrebbero affrontare le crisi e le mutazioni della famiglia nel terzo millennio: sostenere la sperimentazione, offrirgli ispirazioni, laboratori, riti, simboli affinché venga intesa come una opportunità epocale di crescita, e non come una disfatta involutiva dovuta alla scomposta fuga dai fantasmi e dai tabù del passato.
Bell’articolo, dotto ed interessante che però mi lascia perplessa circa le sorti della futura famiglia.
Non riesco ad immaginare la nuova forma famigliare. Posso solo supporre che non possa discostarsi di molto dagli archetipi e/o da forme simili a quelle passate, perchè l’essere umano – per come è fatto – necessita di quello che lei ha ben illustrato.
L’unica cosa che mi preme è che il nuovo modello famigliare (“suggerito” da chi ha interesse a che la famiglia si spacchi in favore di un lucro? Massoni , ecc…) sia giustificato psicologicamente. Cioè che vi si trovi a tutti i costi un bene e non una disarmonia a spese dell’evoluzione del singolo e del bene comune.
Son dell’idea che il viaggio verso noi stessi si mescoli in ogni rapporto umano e che soprattutto la famiglia sia il “luogo” privilegiato per questo “lavoro” su se stessi seguito solo dalla solitudine (quella scelta da Jung nei suoi ultimi anni, tanto per capirci).
Saluti.
Nell’articolo si vuole considerare che la famiglia nel corso delle epoche si è sempre adattata e trasformata a seconda della società, dei modi di produzione, dei fatti storici e culturali. Da tempo si parla di morte della famiglia, o di famiglia in crisi, ma in realtà è in corso una complessa trasformazione che arriva a concepire le forme di convivenza e collaborazione di tipo famigliare in modo indipendente dai ruoli sessuali e di parentela. Bisogna cioè ritrovarsi a condividere spazi e tempi vitali non solo tra consanguinei, ma allargando le relazioni profonde anche alle persone amiche ‘profonde’. Ciò è molto difficile, ma se ci si riesce, si sta meglio, si preserva la propria autonomia e si accetta l’interdipendenza. E’ importante in qualche modo, anche non rigidamente strutturato, curare la ‘famigliarità’ con altri esseri umani non parenti. Gli amici veri, sinceri, non sono solo affetti extrafamigliari, ma possono diventare persone con le quali condividere progetti e affrontare difficoltà. Ripeto si tratta di nuovi tipi di relazione interumana che stanno trasformando il concetto di famiglia e che vanno capiti e coltivati più a fondo, altrimenti si resta sempre più soli e sempre più senza famiglia. In effetti quando la famiglia, come nucleo divenuto sempre più piccolo, si arrocca su se stessa e si chiude agli altri, accade che vada in crisi e si dissolva in poco tempo, oppure che sopravviva entro dinamiche dolorose e frustranti. Ci sono ancora famiglie che reggono, ma sempre più a fatica e sempre in minore quantità. Negli anni ’60 erano state teorizzate le Comuni, ma in forma molto ideologica, adesso accade che gruppi, associazioni, persone con comuni interessi condividano progetti, spazi e idee. Ciò determina forme di ‘famiglia psicologica’ che aiutano molto ad affrontare la vita e a crescere. Bisogna allora lavorare per sperimentare e capire queste nuove forme di famiglia ‘non parentale’, ma che si determinano sulla base di aspirazioni, idee, desideri, e fondamentalmente di un’affettività umana che ricerca sentimenti famigliari non più, e non solo determinati da vincoli e ruoli di sangue e sessuali. L’importante è non restare frustrati nella solitudine e costruire relazioni importanti, fondate su vincoli affettivi e spirituali, in modo che la ‘famiglia di amici’ non sia più soltanto una scelta dettata da necessità della quale accontentarsi, ma che sia veramente una scelta di amore e di libertà, dove si scopre veramente quel tesoro che c’è in ogni vero amico.
Concordo in parte, ma non essendo del “mestiere” mi limito ad un mio modestissimo parere.
Quello di cui lei parla assomiglia (se ho capito bene) alla società contadina, ai villaggetti africani o alle tribù, alle comuni ideologiche (Nomadelfia, per esempio) che hanno (o hanno avuto) senz’altro quella valenza più totalizzante per l’essere umano. Ma non è forse famiglia la prima cellula della società?! Quindi quando essa si allarga (come lei dice) non fa altro che ritornare alle origini, a quei nuclei minimi ma sufficienti per la sopravvivenza di ciascuno.
A parte questo, ciò che non mi torna da un punto di vista psicologico/pedagogico sta nel fatto che nelle esperienze delle comuni (per esempio) non sempre i rapporti parentali erano salvaguardati. Cioè si rischiava di scegliersi i genitori o i figli o di improntare nel gruppo un dictat a senso unico perdendo così le peculiarità che la famiglia può ed è tenuta a dare. Per questa ragione hanno avuto una fine abbastanza rapida a dispetto delle tribù di ogni parte del pianeta.
In pratica resto ancora dubbiosa sul perdersi di quel rapporto stretto tra genitori e figli che sì può portare anche tragedie, ma anche “obbligarli” a confrontarsi con se stessi, a far fronte ai loro desideri contro le aspettative della famiglia, dinamiche edipiche, ecc… che – per quanto dolorosi – sono utili allo sviluppo del bambino e della coppia.
Mi sono dilungata, mi perdoni, il fatto è che più ci rifletto e più sono perplessa.
Un saluto
Grazie, le sue osservazioni mi sono molto utili, e ci fanno riflettere.
La cosa con la quale concordo con lei in questo breve scambio di idee è che anche non mi torno che le cose possano andare in un certo modo. Cioè anche io temo i pericoli e le infelicità che porta la crisi epocale dell famiglia. Infatti a fronte di molta più libertà, ed anche della parità uomo-donna, quindi dell’estremo ridimensionamento della figura del maschio-patriarca si sono perse anche regole, fondamenti, confini, così che le famiglie si fanno e si disfanno, senza più apparire coese e durature. Tuttavia ho osservato, e spero, che la famiglia sin dalla notte dei tempi è sempre stata un organismo in mutazione, in funzione della società e della cultura. Adesso si ha la sensazione che i legami di parentela non siano solo quelli tra consaguinei, o tra coniugi, ma quasi che ognuno tenda a cercare un’aria di famiglia al di là della famiglia parentale. Questo anche con frustrazione, poiché è assai difficile…
Io comunque non sono un teorico, cioè non propongo idee su come dovrebbero essere le cose secondo una certa idea o teoria, sono piuttosto un fenomenologo, cioè un ricercatore ed anche un clinico che vuole far osservare certi fatti, eventi, mutazioni, ecc. Il punto di vista fenomenologico non mira a dimostrare una verità o a dare giudizi e dimostrazioni, vuole invece limitarsi a rilevare alcuni aspetti di un fenomeno, magari osservandolo da vari punti di vista, anche a volte paradossali, così che poi ciascuno possa riflettere più a fondo, secondo la sua esperienza.
Tutti i giorni in pratica lavoro con ‘problemi di famiglia’ cercando di far rilevare come certi problemi non derivino da meccanismi di superficie, da ragionamenti basati su teorie e idee su come dovrebbe essere o non essere, ma da forze e dinamiche condizionanti che vengono dall’inconscio individuale (quindi dai complessi) e dall’inconscio collettivo (archetipi). In questo articolo cerco quindi di far riflettere su come il ‘fenomeno della famiglia in crisi’ possa essere osservato nelle sue radici profonde e per certi aspetti comuni a tutte le famiglie. Poi ciascuna famiglia è diversa, imporre visioni oggettive può essere riduttivo. Ma affinché si possa cogliere la soggettività dobbiamo anche aprire la nostra visuale e spostare i punti di osservazione, e quindi cercare di esprimere cosa vediamo, senza pretendere di vedere tutto, ma ampliando le nostre sensibilità e le nostre possibilità di comprensione della relazione conscio-inconscio in ciascuno di noi, negli altri e nella collettività. Cerchiamo quindi di favorire la comprensione più che rimarcare convinzioni rigide e giudizi.
Saluti
Buongiorno dottor Brunelli, ho scoperto da poco il suo sito è molto bello complimenti. Sono molto interessata alla psicologia junghiana in quanto grazie alla psicoterapia analitica sto lentamente superando tante difficoltà nella mia vita, sento che mi da tanta forza nei momenti di difficoltà. Però nn ho ben chiaro quale è la posizione della psicologia analitica rispetto ai disturbi alimentati in particolare riguardo la bulimia e anche la fame nervosa. Secondo lei quali sono le cause che originano questi disturbi e come può il paziente cambiare rotta per affrontare il problema? Grazie
Buongiorno. Risposte troppo superficiali e rapide in questo campo possono essere fuorvianti. Tutte le volte che si cerca una causa generale ad un problema personale, particolare, si rischia di andare fuori strada. E’ vero che si possono fare ragionamenti di ordine generale, ma se lei vuol veramente capire il SUO caso deve lavorare su quello. Ciascuno deve cioè scoprire l’intima ragione personale per cui, ad esempio, esprime un disagio attraverso l’alimentazione, e altre questioni correlate… va bene che lei legga e si informi, ma poi deve leggere e informarsi sul libro della sua vita, e per fare ciò tutti abbiamo bisogno di un altro lettore, di qualcuno con cui condividere, dialogare, comprendere, e quindi di una persona che abbia funzioni terapeutiche. Questo perché siamo ovviamente così coinvolti nelle emozioni e nei problemi che è importante connettersi con qualcuno capace di ascolto e di elaborazione e di empatia, al fine di sbrogliare certi nodi, di evolvere e conoscerci più a fondo.