LA PROPAGANDA DI GUERRA E’ UN’ARMA MICIDIALE PER FORMARE UN’OPINIONE PUBBLICA MOTIVATA ALL’ODIO E ALLA GUERRA, SI ESASPERA OGNI NEGATIVITA’ IN MODO CHE APPAIA IMPOSSIBILE NEGOZIARE. SI DICE CHE IL NEMICO COMPIA ATTI ORRENDI, COME MANGIARE I BAMBINI, COME UN DIAVOLO O COME UN HITLER COSI’ CHE LA GENTE SI CONVINCA CHE NON E’ POSSIBILE NEGOZIARE LA PACE. SI TERRORRIZZA LA GENTE COSTRUENDO SCENARI ORRIBILI E DEFORMANDOLI IN MODO DA ISTIGARE ALLA GUERRA SENTITA COME SOLA DIFESA POSSIBILE, QUANDO INVECE CI SAREBBERO AMPI MARGINI DI TRATTATIVA. MA LA PROPAGANDA NON VUOLE MAI LA PACE, VUOLE GUERRA PER MOTIVI DI STRAPOTERE, ANCHE QUANDO SI POTREBBERO SANCIRE CHIARI PATTI DI NON BELLIGERANZA. IN QUSTO ARTICOLO, TRATTO DA UN MIO LIBRO SCRITTO DIVERSI ANNI FA CON MAURO FERRARESI PER CONTO DI BOLAFFI EDITORE, SI PROPONE UNO SGUARDO STORICO SUL MANIDFESTO POLITICO E DI PROPAGANDA, DALLE SUE ORIGINI ALLA PRIMA META’ DEL ‘900. OGGI LA PROPAGANDA SI SVOLGE CON UN INTENSO APPARATO DI CROSS-MEDIA (TRA MASSMEDIA CLASSICI E DIGITALI) E UNO SPADRONEGGIARE DI DISINFORMAZIONE, FAKE NEWS, RICOSTRUZIONI UNILATERALI E FUORVIANTI AD OPERA DI OPIMION MAKERS E OPIMION LEADERS PREZZOLATI DAI COMMITTENTI DELLA PROPAGANDA DI GUERRA (NONOSTANTE UNA PACE NEGOZIALE POSSIBILE) CHE, IN ULTIMA ANALISI SONO I SIGNORI DELLA GUERRA, SIA DAL PUNTO DI VISTA FINANZIARIO CHE DELL’INDUSTRIA BELLICA. CONOSCERE IL POTERE DELLA PROPAGANDA Può AIUTARE A NON RESTARNE SOGGIOGATI, SOPRATTUTTO ADESSO CHE, ATTRAVERSO I SOCIAL POSSIAMO AIUTARE A DIVULGARE INFORMAZIONI E PENSIERI DI PACE, INVECE CHE ESSERE EMOTIVAMENTE STRUMENTALIZZATI DAI PRODUTTORI DI MORTE.
Una delle affissioni più importanti della storia può essere considerata quella compiuta da Lutero con le sue 95 tesi esposte sul portone della chiesa di Wittemberg nel 1517. L’affissione sul portone della Chiesa era una forma di divulgazione assai usuale, ma quelle 95 tesi in piazza sancirono definitivamente lo scisma della chiesa. Lutero aveva scritto in latino con l’idea di rivolgersi solo ai teologi e ai prelati, ma la sua affissione fu subito tradotta in tedesco e si diffuse rapidamente con la stampa. Come è ben noto si trattava di propaganda politico-religiosa antipapale e, a tale riguardo, va ricordato che l’uso dell’espressione ‘propaganda’ deriva da “De propaganda fide” ed è tipicamente cristiana, nel senso della fede da propagare. Va però detto che le 95 tesi solo parzialmente sono da ascriversi al fenomeno dell’ affissione, per il semplice fatto che si trattava di un unico esemplare. Quando l’affissione diventa un vero strumento di propaganda politica essa si replica fino a raggiungere luoghi tra loro distanti per rendersi visibile in molteplici punti dello spazio urbano, conquistandolo.
La propaganda in senso eminentemente politico assume un’ampiezza straordinaria durante la rivoluzione francese. Famoso è l’avviso politico che informava il popolo dell’esecuzione di Luigi XVI alle ore 17 del lunedì 21 gennaio 1793: un liberatorio, quanto macabro appuntamento con la storia, scandito dal potere comunicativo del manifesto. Ma la propaganda in forma marcatamente visiva si sviluppa soprattutto con la rivoluzione russa, che fece un grande uso del manifesto ed anche del cinema. Ovviamente tutti i regimi totalitari, a cominciare da quello nazista hanno fatto largo uso della propaganda. Tuttavia anche la divulgazione dei temi nazionalistici ottocenteschi è stata fortemente scandita dai manifesti, soprattutto in occasione di campagne di propaganda bellica. Gli eserciti, le bandiere, gli emblemi mitico-storici, costituiscono motivi di ‘immagine coordinata’ e quindi insiemi di ‘segni organizzati’ che conferiscono ai manifesti un valore comunicativo forte, volto a consolidare i miti di identità e di fondazione delle nazioni. Alcune pubblicità di fine ‘700 utilizzano i tratti distintivi delle uniformi e delle parate militari per promuovere birre o tabacchi.[1] In tal modo si pubblicizza un prodotto, ma si fa anche propaganda nazionalistica e quindi politica. Vi sono poi manifesti appositamente celebrativi dell’identità nazionale, raffiguranti motivi più o meno simili, come ad esempio quelli che mostrano una donna che porta la bandiera americana[2]. Ma la potenza documentale del manifesto, ci riporta con un balzo nelle atmosfere cruciali della prima parte del XX secolo, atmosfere delle quali avvertiamo ancora oggi la eco che riverbera sui destini del terzo millennio. In un certo senso i manifesti sono stati la copertina del XX secolo, l’illustrazione privilegiata di un’epoca densa di rivolgimenti, trasformazioni, conquiste, tragedie, speranze. Ma non bisogna guardare ad essi solo come a documenti della divulgazione di idee e di notizie, quanto come a veri e propri strumenti di produzione del pensiero e dell’opinione pubblica. I manifesti, dunque, non solo illustrano la storia, ma contribuiscono al suo naturale svolgimento.
Il manifesto politico ha una sua naturale vocazione popolare e critico-antagonista rispetto a quella istituzionale e conservatrice delle autorità costituite o dei partiti di governo. Il manifesto è infatti un medium di massa che può essere realizzato e affisso a costi economici e sotto il pieno controllo dell’emittente (magari anche abusivamente). Se il giornale politico clandestino presume una logistica organizzativa ed intellettuale piuttosto sofisticata e una distribuzione elitaria, il manifesto può essere realizzato e diffuso con relativa semplicità, e inoltre, si rivolge al popolo, o all’insieme di alcune sue componenti. Con le rivoluzioni francesi del 1848, del 1871 (La Comune) e del 1889 la diffusione di manifesti realizzati dal popolo per il popolo diviene sempre più ricorrente. Si tratta di controploclami rivolti a coalizzare la protesta dei movimenti operai, ma anche ad affermare la presa di coscienza proto-femminista, o ancora a divulgare tematiche politico-pedagogiche di giustizia e di emancipazione sociale. Questi manifesti, che hanno fatto storia e che oggi sono conservati nei musei e stampati sui libri, sono però quasi sempre basati sul testo scritto, e quindi non hanno quella carica verbo-visiva che genera la vera forza comunicativa del manifesto. E’ plausibile dire che la protesta popolare non poteva preoccuparsi molto di certi aspetti artistici, sebbene questi potevano avere un valore determinante per un efficacia della comunicazione. Bisogna attendere la rivoluzione russa affinché l’espressione delle lotte popolari attraverso i manifesti acquisisca caratteristiche artistico-figurtive. Di grande valore innovativo sono in tal senso le ricerche e le produzioni degli anni venti di El Lisitskij[3] (non solo per quanto concerne il manifesto politico, ma per la comunicazione visiva in genere) che hanno dato luogo ad un utilizzo dei caratteri e dei segni tipografici in chiave figurativa, e quindi ad una architettura verbo-visiva fondata sulla capacità del testo di diventare immagine e viceversa (vedi 5.5). Altro grande artista politicizzato, che opera tra gli anni Dieci e gli anni Trenta, è il tedesco J. Heartfield, il quale elaborò la tecnica del montaggio fotografico mirato alla comunicazione di massa. Con Heartfield, la fotografia e il collage diventano nuovi strumenti di pittura, che non si soffermano solo sulla ludicità e la casualità dadaista, ma vengono orientati ad un effetto di senso chiaramente comprensibile alle masse e di grande significato critico e rivoluzionario. [4] Questi elementi creativi, al di là del loro contenuto politico, hanno impresso un linguaggio nuovo nella storia del manifesto e dell’arte contemporanea.
Tuttavia, in linea di massima, la grafica dei primi movimenti socialisti e anarchici, anche quando diviene più figurativa e colorata non si discosta un gran ché dalle mitologie conservatrici della morale dominante. Ci riferiamo alle immagini di ‘maschia potenza’ della propaganda socialista,[5] dove il vigoroso operaio seminudo, che magari spezza simboliche catene, non è molto diverso da quello che celebra le virili gesta di fazioni politiche di senso totalmente opposto. La figura maschile portatrice di idealità moralistiche di forza e di operosità viene utilizzata ampiamente nel manifesto politico, a prescindere dall’idea propagandata. Il nudo maschile compare anche nei manifesti sportivi, e in quelli celebrativi di attività socio-economiche (come mostre e fiere), la sua connotazione è quella di rassicurare circa la qualità istituzionale dell’evento, il suo essere concorde con un ideale di reggenza patriarcale e fiduciaria dell’autorità e del potere costituito.[6] Se il maschile detiene un ruolo politico sui manifesti, il femminile viene esaltato nel campo dei consumi e quindi della pubblicità.
Nel genere ‘politico’ possiamo far confluire anche il manifesto bellico e militarista. In questo campo il manifesto diviene una vera e propria arma della comunicazione in senso difensivo e aggressivo. La figura femminile, accanto a quella della prole, viene impiegata per innescare sentimenti protettivi, e quindi divulgare ideali patriottici, esortare all’arruolamento o a comportamenti da tenere durante lo stato di guerra. La figura maschile, quasi sempre in divisa, incita ad atti di eroismo, di cameratismo e di celebrazione delle auspicate vittorie. In certi casi il contenuto aggressivo del manifesto è fortemente pervaso da sentimenti di spietatezza e di crudeltà. Talvolta i manifesti tendono a mettere in luce la malvagità del nemico, altre volte lo ridicolizzano. Durante, la prima grande stagione del manifesto bellico, che corrisponde evidentemente alla prima guerra mondiale, viene sperimentata ogni sorta di modalità comunicativa a favore di diversi interessi tattici e strategici. A tal fine risulta chiaro a tutti, che il potere comunicativo del manifesto risiede nelle sue immagini, che da sole, meglio delle parole, illustrano eventi, idee, sentimenti caratterizzanti i conflitti e le posizioni. Si può senz’altro dire che la seconda guerra mondiale ha costituito uno sviluppo anche per le armi della comunicazione visiva, sia per un maggiore impiego della fotografia e sia per una maggior raffinatezza nelle illustrazioni. Ciò anche a causa della capacità comunicativa dei diversi totalitarismi presenti sulla scena, i quali, come si è detto hanno fondato gran parte delle loro imprese sulla propaganda. Bisogna notare che nel caso della propaganda sovietica per molti artisti (come per il già citato El Lisitskij) vi fu la possibilità di sperimentare linguaggi nuovi e nuove concezioni estetiche. Movimenti come il suprematismo di Malevič, il produttivismo e il costruttivismo si ispiravano ad una poetica modernista che univa arte, politica, società in nome di una creatività razionalistica, fondata sulla funzionalità e la geometricità oggettivante delle forme. Questa poetica ha a sua volta ispirato la Bauhaus e una ricerca espressiva che, insieme a quella cubo-futurista, viene rielaborata in tutto il ‘900 nelle arti grafiche, nel manifesto, nel design e nell’architettura.
Un’ulteriore evoluzione del manifesto politico si sviluppa nel dopoguerra, sia nella direzione della protesta e della critica, e sia nella dimensione più conformante e conservatrice delle campagne elettorali. I manifesti del dopoguerra sono in generale concepiti sulla base di una rivisitazione estetico-comunicativa dei percorsi artistici generati delle avanguardie storiche. Nel caso del manifesto politico si nota però il perseguimento di una certa classicità, a volte perché vi è il tentativo di recuperare un iconografia tradizionale, relativa ad una certa ideologia o un certo movimento geo-politico, altre volte, soprattutto in campo elettorale, vi è la necessità di una comunicazione demagogica, piena di rassicurazioni, promesse e quindi di luoghi comuni. Da questo punto di vista si può osservare che vi è un contaminarsi di discorsi persuasori di carattere politico-istituzionle con discorsi persuasori di carattere pubblicitario. E’ infatti evidente che il messaggio pubblicitario presenta molto spesso segni di ideologia, di mentalità, e quindi di consenso rispetto all’ordinamento politico-economico, che lo sottende e che gli consente di operare ed affermarsi.
Con l’avvento della televisione e la sempre maggior diffusione dei quotidiani e della stampa, il manifesto perde il suo primato di principale divulgatore delle immagini, ma acquisisce un carisma di ufficialità, di medium nobile, per così dire, del quale non si può comunque prescindere. Ciò risulta evidente dall’attenzione che il ‘marketing politico’ riserva tutt’oggi alle affissioni, quasi che i cittadini abbiano preservato l’idea che lo spazio della comunicazione pubblica per eccellenza resta quello evidenziato dai muri delle città, nonostante il preponderare dei media elettronici. Oggi il manifesto elettorale punta all’autoproclamazione dell’uomo o della donna provvidenziale attraverso il ritratto fotografico, dal quale si deve intuire il tono del discorso politico propagandato. Il semiologo Pierre Fresnault-Deruelle spiega che dall’espressione posturale e del volto, e da alcuni particolari che la contestualizzano, risulta una modalità comunicativa del candidato in termini di ethos e di pathos.[7] L’ethos è l’insieme delle idealità del candidato, per lo meno quelle che si possono leggere sul suo volto: giovane, meno giovane, anziano, bello o brutto, virile o efebico, con qualche somiglianza ad un tipo etnico-razziale o a qualche altro stereotipo (operaio, dirigente, padre di famiglia). Da questi stessi segni del volto, dell’abito e della postura si dovrebbe poi intuire un pathos, e cioè quelle qualità emozionali che il candidato vuol trasmettere: sicurezza, combattività, pazienza, forza, ponderazione, ecc. Del resto, questa espressività della figura umana assume un senso tanto più qualificante, quanto è inqualificante e limitata la sostanza del discorso politico esprimibile con un‘immagine e uno ‘slogan’. I candidati si scontrano lungo la frontiera del luogo comune, ed ecco allora che la loro immagine più o meno ‘simpatica’ può risultare determinante… ma solo per chi non può o non vuole superare la superficialità delle apparenze.[8]
Le osservazioni sul manifesto politico e di propaganda ci fanno comprendere che in tutte le forme di manifesto vi è il retaggio di una strategia combattiva e di conquista. E’ nella natura del manifesto conquistare il pubblico, ma anche il territorio, attraverso “campagne” (termine militare) e ‘slogan’ (parola originariamente scozzese che indica il grido di guerra). Uno studio di Michael Davie analizza un momento della guerra civile del Libano a Beirut,[9] caratterizzato da una lotta delle diverse fazioni per marcare il territorio con i propri manifesti. Questo fenomeno è tipico della ‘battaglia di manifesti’, volta a conquistare non solo le opinioni ma anche gli spazi urbani, allorché il manifesto è “sauvage”: politicamente illegale, abusivo, o comunque non previsto dalle logiche istituzionali. Del resto, anche il manifesto pubblicitario, con le sue ‘strategie e tattiche’ (‘guerresche’), non solo mira a comunicare, ma anche a competere con la concorrenza attraverso una vera e propria battaglia retorica e mediatica.
Il manifesto politico e di propaganda ha dunque una sostanzialità comunicazionale che attraversa i diversi generi di manifesto. La sua peculiarità, è comunque quella di essere stato il primo massmedium verbo-visivo sui fatti e le idee della storia.[10]
Non lasciamoci mai abbindolare dalla propaganda che manipola in noi sentimenti di rabbia, paura e pietà, per poi renderci complici sui social di messaggi che vanno ad incrementare odio sanguinario, anche quando con tutta evidenza una pace giusta, che tenga conto delle esigenze dei popoli e delle parti in conflitto è assolutamente possibile. A volte – probabilmente – non resta che rispondere con la guerra alla guerra, ma la maggior parte delle volte – sicuramente – si deve fermarle con trattative di pace!
[1] Si vedano alcuni Manifesti di questo genere conservati presso il Musée des Art Décoratifs. Ad esempio Bonne Double Birre, oppure Debit de Tabac, Manufacture Royale.
[2] Ad es. The Star Spangled Banner (circa 1870, non firmato) Stampa Curier and ves, New York – Washington, National Library.
[3] Sophie Lisitskij-Küppers, El Lisitskij. Pittore architetto tipografo fotografo, 1967, Editori Riuniti, Roma, 1992.
[4] E. Siepemann, John, Heartfield, 1977, Milano, Mazzotta, 1978.
[5] Si veda ad es. P. Miani, Avanti! Anno VI. Tipografia Poligrafica Romana. Manifesto per il “Giornale socialista” quotidiano di Roma. Treviso, Museo Civico Valio, Collezione Salce.
[6] Ad es. L. Metlicovitz, “Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro”, Torino 1911. Stampa: Ricordi, Milano. Treviso, Museo Civico Luigi Bailo, Collezione Salce. Oppure sempre di Metlicovitz, manifesto per i mori a scoppio del 1905, Treviso, Museo Civico Luigi Bailo, Collezione Salce. Altro esempio è “Luce Wolff”, circa 1900. Manifesto per l’illuminazione a gas, Treviso, Museo Civico Luigi Bailo, Collezione Salce.
[7] Pierre-Fresnault-Deruelle, L’image placardée. Pragmatique et rhétorique de l’affiche, Paris, Nathan, 1997.
[8] Si veda M. Ferraresi “Occupare con le affissioni” in M. Ferraresi (a cura di) Davanti agli occhi di tutti, Milano, Alcon, 2000.
[9] M. David, “Les marqueurs des territoires », in Dans la ville, l’affiche, Tours, revue Eidos, Maison des sciences de la ville, Université François-Rabelais, 1993.
[10] Il concetto di ‘verbo-visivo’, di importanza fondamentale per la struttura estetico-comunicativ del manifesto, viene approfondito in 3.5 e nell’ultimo capitolo di questo libro.
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