Una riflessione sul lutto e la dimensione psicospirituale per vivere meglio nell’aldiqua 

Dice Carl Gustav Jung:

“Certamente la morte è anche una spaventosa brutalità, non c’è da illudersi: non è solo brutale come evento fisico, ma anche, è più, come evento psichico. Un essere umano ci è strappato, e ciò che rimane è un gelido silenzio di morte; non vi è più speranza di un rapporto qualsiasi, perché tutti i ponti sono tagliati di colpo. coloro che meriterebbero una vita lunga sono stroncati nel fiore degli anni, e i buoni a nulla raggiungono una Florida vecchiezza. Questa è una crudele realtà che non possiamo ignorare, la crudeltà e arbitrarietà della morte possono amareggiare talmente gli uomini da portarli a concludere che non esiste un Dio pietoso, né giustizia , né bontà .Da un altro punto di vista, tuttavia, la morte appare come un avvenimento gioioso. Sub specie aeternitatis è uno sposalizio, un mysterium coniunctionis. L’anima raggiunge per così dire, la metà che le manca, realizza la sua completezza. Sui sarcofagi Greci l’elemento gioioso era rappresentato da fanciulle danzanti, sulle tombe etrusche da cene conviviali. Quando il pio cabbalista Rabbi Simon ben Jochai giunse a morte, gli amici dissero che stava celebrando le sue nozze. Ancora oggi in molti paesi c’è l’usanza di avere un picnic sulle tombe nel giorno dei morti. Tali usanze esprimono il sentimento che la morte in effetti sia una festa Gioiosa”.

(C.G. Jung, “La vita dopo la morte” in Sogni, ricordi riflessioni, 1961).

Spunti filosofici

Dopo la morte c’è qualcosa anziché niente? Dove andrò dopo questa vita? E la persona amata, trascinata dalla morte, dove andrà? Nel nulla o da qualche parte? Non lo so. Ma del resto cosa ne so del nulla? Esiste il nulla? Come lo posso spiegare? E’ un eterno quesito della filosofia e di ogni cultura, anche la più primitiva, al quale le religioni e i saperi mistici da sempre cercano di dare una risposta. Chi potrò incontrare dopo la morte? Sarò solo? Ci saranno le persone che ho conosciuto nella vita? Oppure non ci sarà nessuno, niente. Non c’è un barlume di certezza, a meno che non si taglia corto e si dice che si tratta solo di superstiziose sciocchezze. Non c’è nulla, e basta! Tuttavia, a ben vedere, non posso nemmeno avere la certezza che il nulla esista, altrimenti se esistesse non sarebbe il nulla, sarebbe pur sempre qualcosa che esiste. La nostra mente limitata nelle categorie dello spazio e del tempo, non può concepire l’aldilà in termini logici, ma lo può immaginare, può averne un sentore. Semplicistico dire che ogni fantasia post-mortem è solo una superstizione. Quantunque lo fosse, anche essa ha un valore per la mia psiche, muove i miei sentimenti, la mia memoria, i miei valori, le mie paure e le mie ispirazioni. Quante cose umane non hanno consistenze logiche e prove oggettive. La realtà è quella che è, perciò ogni fantasia è semplicemente irrealistica. D’altra parte sarebbe mero fideismo credere nei sensitivi circa l’esistenza di una qualche realtà soprannaturale; tuttalpiù possiamo farci ispirare da essi e a seconda di quelle che sono le nostre posizioni ideologiche, filosofiche, religiose. A rigore se non vogliamo affidarci al fideismo e alla pura credenza possiamo lasciare che medium e visionari evochino in noi comunemente dotati di normale sensibilità una qualche immaginazione poetica e spirituale dell’aldilà. Del resto si tratta di un tema archetipico, forse il più fondamentale di tutti. La pietra miliare, il fondamento di ogni filosofia e di ogni religione consiste infatti nell’esaminare l’opposizione o la coniugazione tra materia e spirito, tra realtà visibile ed invisibile. In sintesi ciò vuol dire acquisire più profonda consapevolezza del nostro essere mortali – l’umano è l’unico essere che, come ha osservato Heidegger, ha coscienza della sua mortalità, ovvero del suo “esserci”! Ma Heidegger considera che niente e nulla non sono la stessa cosa, per quanto in italiano vengano usati come sinonimi. Il ni-ente indica che non c’è un ente fisico, laddove l’Essere non è una cosa, quanto piuttosto un’essenza che è insita nella cosa senza però identificarsi con essa, il ni-ente “non è mai nulla” (das Nichts ist niemals Nichts), in quanto è l’Essere della cosa, e noi umani abbiamo consapevolezza di non essere solo un ente, siamo infatti essere (al di là dell’ente). In un certo senso, l’esistenza umana si caratterizza per una consapevolezza di essere già nella vita, in un al di là dell’apparire fisico. Dobbiamo allora fare una differenza tra “al di là” (con tre termini staccati), nel senso di ‘oltremondano’ che pure percepiamo in vita, e un ‘aldilà (come parola unica) con il quale si intende una possibilità di vita, o di esistenza  altra post-mortem. Sin da subito diciamo che noi non abbiamo qui interesse a cimentarci in un improbo tentativo di speculazione filosofica per dimostrare che un qualche aldilà possa davvero esistere, ma ci teniamo a considerare come ogni discorso sulla possibilità o impossibilità di esistenza di un aldilà sia da sempre presente nella psiche umana e di come ciò abbia condizionato la vita della collettività e dell’individuo circa i modi di esserci nell’aldiquà!

Spunti psicospirituali

Teilhard de Chardin – teologo e paleontologo ((1881 – 1955) osserva che noi non dovremmo considerarci come esseri umani che dovrebbero fare esperienze spirituali, ma il contrario, siamo esseri spirituali venuti a fare un’esperienza umana. Perciò in quanto spirituali veniamo da un altrove rispetto al mondo sensibile e siamo sempre connessi al sovrasensibile anche una volta abbandonato “questo mondo”. Ma la mente logica di fronte a tali ragionamenti dice solo che sono irragionevoli, irrealistici, perciò assurdi, e con ciò presume per forza che dopo la morte non c’è più nulla. Quello che resta, resta solo per chi è vivo, ma per chi non c’è più, non c’è più nulla, senza però riuscire a spiegare in cosa consista questo nulla. Seppure in senso dell’identità individuale si potrà dire che questa venga annullata, e che quindi si esce dalla vita e si entra nel nulla, dal momento che questa uscita entra in qualcosa, essendo qualcosa, a rigore non può essere ‘nulla’. Forse si tratta di entrare nel ni-ente di Heidegger, cioè nell’Essere?  Alziamo le mani: arrendiamoci, troppo complicato! A questo punto infatti dovremmo parlare di cosa possa essere l’essere? Non è questo su cui vogliamo osare riflettere, ma vogliamo umilmente osservare che dal momento che parliamo dell’aldilà, della sua possibilità o impossibilità di esistenza, siamo costretti a sfiorare temi di immensa portata. Che dire, se non che la storia dell’aldiquà si possa essere evoluta, sin da tempi immemorabili in ogni campo del sapere, dalla filosofia, alla religione, alla scienza, nell’interrogarsi non tanto sulla morte come limite invalicabile, quanto su ciò che potrebbe o non potrebbe venire a seguire. D’altra parte come più volte ha osservato Freud “Il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale” (L’interpretazione dei sogni, 1900). La psicoanalista svizzera von Franz allieva di Jung, nel suo libro La morte e i sogni, (1986) osserva che i sogni delle persone che si risvegliano dal coma, e di quelle in procinto di morire presentano simbologie simili a quelle di persone che stanno attraversando grandi cambiamenti nella vita. Non si tratta mai di sogni disperanti, ma di sogni di apertura ad una qualche nuova esperienza. Insomma nella nostra psiche la morte presume una conseguente rinascita, così come si celebra nei riti funerari e commemorativi di ogni cultura. Ciò non riguarda solo un sentimento o una credenza religiosa, ma anche una sorta di impegno morale ateo, che freudianamente viene sancito dal Super-Io, e quindi anche in assenza di ogni idealità confessionale e religiosa.

Freud, Jung e l’aldilà

In Lutto e melanconia (1915-1917) Freud si discosta dalla sua teoria della libido come strettamente legata alla sessualità, per considerarla in termini di affettività, cioè non più strettamente legata ad una pulsione fisiologica e quindi, anche se non lo dice espressamente, a un qualche fenomeno spirituale. L’oggetto amato perduto provoca nel soggetto un crollo depressivo (melanconico) perché la libido affettiva che aveva investito su quell’oggetto è andata perduta. Il lutto genera un senso di svuotamento, anedonia, angoscia perché la psiche viene per così dire trascinata dalla morte insieme alla persona che se ne è andata. Questa condizione è tanto più dolorosa quanto più la persona era cara, cioè fondamentale per il proprio equilibrio narcisistico, in quanto era amata e ci si sentiva da essa riamati. Da ciò deriverebbe anche il crollo narcisistico dell’autostima, il rimprovero e persino la denigrazione di se stessi per non aver fatto abbastanza per quella persona, per farla stare bene in vita e addirittura per preservarla dalla morte. Se poi nella vita c’è stato un rapporto conflittuale o ambivalente con la persona scomparsa, il lutto può essere ancora più doloroso, tormentato da sensi di colpa e rimorsi. Ma un po’ alla volta, con il tempo circa sei mesi, (secondo il DSM “Manuale Diagnostico Statistico delle malattie mentali) – ma in verità la tempistica è alquanto variabile – la libido viene disinvestita da quell’oggetto d’amore perduto e viene reinvestita nella vita, su altre persone, progetti e attività. La persona viene interiorizzata nel ricordo, trasformandosi in un oggetto interno, che può risultare più o meno perturbante nella misura in cui i nodi relazionali problematici che si erano formati in vita non siano stati sufficientemente elaborati. Ecco allora che il ‘fantasma’ di quella persona determina un disturbo, un disequilibrio proveniente dall’inconscio. Spesso persone che hanno un problema di autostima possono non essere consapevoli che sono rimaste legate a un genitore defunto che in vita era svalutante o troppo giudicante. Oppure si può reagire con rabbia eccessiva, quindi con over-reaction, quando un nostro caro che ci ha lasciato, non è mai stato davvero caro e quindi ci ha lasciato in eredità un senso di ingiustizia irreparabile, una sfiducia di base verso le relazioni affettive e in generale, un allarmismo precauzionale che può diventare distruttivo nelle relazioni e di se stessi. Va poi considerato che il lutto, e ciò che di esso resta o vanisce nella vita delle persone, dipende anche da come la persona amata è scomparsa, quanto le circostanze siano state drammatiche, provocate da lunghe pena, o da tragici eventi subitanei (come la morte violenta provacata da un incidente, per mano altrui, oppure per un atto suicidario).

Ecco allora che nella visione di Freud l’aldilà è ‘l’ombra dell’oggetto che cade sull’Io”, risultando più o meno destabilizzante e rovinosa. Ma si tratterebbe comunque di qualcosa di cui ci si deve liberare prendendone coscienza, fino ad arrivare alla spiacevole, ma realistica accettazione che dopo la morte non c’è più nulla, se non le nostre fantasie che possono essere più o meno malsane, e che bisogna portare il nostro interesse libidico/affettivo verso la vita stessa nel “principio di realtà”, ben separata da ogni occultistica idea, credenza o visionarietà ultramondana. In tal senso la psicoterapia aiuta ad uscire dal lutto dal momento che si può sviluppare un transfert affettivo nella relazione terapeutica. Ciò dovrebbe comunque funzionare anche reinvestendo la libido amorosa verso le persone presenti vicine, verso nuove persone, e anche verso nuovi progetti di vita. Ma è normale che in una prima fase non ci si riesca, quasi che durante il lutto occorra un tempo per il ricondensarsi della libido. Freud osserva che la depressione melanconica è simile al lutto, solo che si manifesta anche in assenza della scomparsa di una persona o addirittura per la perdita di qualcosa che non si riesce a definire, se non come una parte di se stessi. Evidentemente Freud non si riferisce alle depressioni reattive, bensì a quelle maggiori, mancanti di una causa evidente e che tuttavia conducono a una penosa mancanza di se stessi, portando a vivere, per così dire, con la morte nel cuore. Ora queste straordinarie osservazioni di Freud qui ci interessano in modo particolare perché, come abbiamo prima osservato, vengono condotte mettendo da parte le considerazioni di carattere psicosessuale, quindi di uno psichismo intrinsecamente legato agli istinti e al bios. Ma allora a cosa si legherebbe la psiche in lutto o quella melanconica se non a una dimensione che non è ascrivibile al naturalismo? Evidentemente a qualcosa di sovrannaturale! Ma si ricorderà che la diatriba tra Freud e Jung fu proprio su questo punto, e cioè sul rischio temuto da Freud di far scivolare la teoria della libido “nella nera marea dell’occultismo”. Jung considerò questa rigida posizione di Freud come una sorta di fobia verso il non conoscibile (misoneismo) e quindi iniziò a differenziare fortemente la sua idea della libido da quella di Freud. L’energetica psichica della libido non era riferibile solo ed esclusivamente alla sessualità, bensì anche ad un suo archetipico protendersi verso una dimensione spirituale. La psiche dunque, etimologicamente intesa e valorizzata come Anima/Psyche non è da intendersi nei termini dell’occultismo, ma di una sua naturale fenomenicità spirituale. L’Anima/Psyche fa da ponte tra la materia e lo spirito, perciò nel lutto non avvengono solo fenomeni di perdita e di reinvestimento libidico, ma di elevazione della coscienza verso una conoscenza capace di contemplare e di sentire l’inconoscibile: quel mondo delle anime che trapassano dall’aldiquà all’aldilà. La morte, come l’amore, ci fa percepire che siamo esseri spirituali e non soltanto carnali, e per il superamento del lutto, nonché delle melanconie depressive, questa elaborazione psico-spirituale dell’esistenza è essenziale. La perdita, il lutto, il crollo della fiducia in se stessi, in una psicoterapia di orientamento junghiano, non sono solo questioni da superare per rilanciarsi nella vita, ma sono occasioni di elaborazione della consapevolezza profonda della nostra e altrui essenza spirituale. 

Spiriti maligni e benigni

Secondo Jung,  le grandi narrazioni sulla vita e sulla morte –  i miti, i simboli, le opere artistiche visionarie, i riti popolari, i saperi magici e religiosi – sono forme di elaborazione del lutto individuale e collettivo. La credenza nei fantasmi o nello spirito dei morti che continuano a vagare sulla terra a danno dei vivi, da sempre suscita paure e terrori. I vivi temono l’invidia dei morti, in quanto potrebbero non accettare che altri godano delle loro cose e di beni ed esperienze di cui non possono godere. Potrebbero quei fantasmi essere desiderosi di cibo e di sesso, oppure potrebbero volersi vendicare di torti che non hanno ottenuto risarcimento in vita, e quindi sarebbero in preda ad una folle rabbia distruttiva. Perciò occorre ingraziarseli oppure scacciarli. Il Carnevale è una festa collettiva che ha proprio il senso di concedere agli spiriti maligni di partecipare al mondo dei vivi, nonostante le loro brutture, rappresentate da maschere mostruose, libidinose e divoranti. In ogni cultura si sono sviluppate formule e simboli utili come scacciafantasmi. Si tratterebbe comunque di proiezioni della vita inconscia che avrebbe interiorizzato in modo disturbante l’anima dei defunti. Determinati disturbi psicoaffettivi, sessuali, cognitivi e percettivi di ordine lieve o grave potrebbero avere un correlato con esperienze luttuose drammatiche e non elaborate. Nei disturbi schizoidei, una doppia personalità, le voci e le allucinazioni, potrebbero riguardare un rapporto disturbato con l’aldilà. Ecco allora che una psicoterapia di una vasta gamma di aspetti riguardanti il lutto dovrebbe tenere conto degli antichi saperi ‘psicospirituali’, portatori di potenti simboli, che secondo Jung, agiscono sulla psiche non solo come narrazioni suggestive, ma anche come fenomeni energetici capaci di guarire, di nutrire e di far evolvere la coscienza dell’individuo e della collettività. Una terapia ‘psicospirituale’ risulterebbe quindi indispensabile per   ‘farci una ragione’ profonda della misteriosa relazione tra aldiquà e aldilà, dal momento che ciò che non è razionalizzabile non è curabile psicologicamente solo in termini logico-razionali. D’altra parte le anime dei defunti, introiettate nella psiche dei viti, secondo tradizione e secondo l’esperienza, possono diventare spiriti guida e energia di protezione psichica, con risultati concreti nel rapporto con la realtà. Allora i defunti diventano nostri suggeritori e ispiratori, ad essi dedichiamo i nostri sforzi e le nostre opere, quasi che questo possa essere un modo per fare felici quelli che ci guardano da lassù e che sempre restano in noi. E poiché verrà l’ora in cui quelli che sono lassù saremo noi, è importante vivere in modo da poter essere introiettati il più possibile come spiriti amati, e quindi beati. Il mondo dantesco è talmente immenso che basta solo sfiorarlo per percepire quanto la sua psicospiritualità sia perennemente efficace per comprendere la stretta correlazione in negativo e in positivo che sussiste tra aldiquà e aldilà. 

Amore, narcisismo e spirito

Volenti o nolenti, seppure si è devoti ad un rigoroso scientismo o ateismo, ciascuno nel suo intimo sogna e immagina la morte all’insegna di paure, speranze ed evocazioni di ordine trascendente. La pietà, la compassione, l’amore che ci lega con tenerezza ai nostri cari che ci hanno lasciato, non possono prescindere da sentimenti che in termini strettamente logico-razionali non avrebbero senso, se non come scompenso del nostro “principio di realtà” (Freud). Perché commuoversi dinnanzi alla fotografia di una persona cara scomparsa dal momento che non c’è più e che è solo un ricordo? Che si tratti di nostalgia, di rimpianto, di desiderio irrealizzabile? E’ probabile che una qualche risposta tecnicamente valida ce la si possa pure dare, così come ce la si dà al cospetto di esperienze e fenomeni della vita amorosa. Eppure, lo stesso Freud in più occasioni ha affermato che in certe questioni, dove la sensibilità umana non può essere in alcun modo inquadrata nelle rigidità della logica, certe risposte le possono evocare solo i poeti. E i poeti non sono forse ispirati? E ispirazione non vuol forse dire essere visitati da uno spirito? Come può la mente interrogarsi sull’infinito, l’eternità e l’aldilà e su tante questioni umane che con tutta evidenza trascendono la materia, se la psiche non fosse ‘naturalmente’ dotata di una vocazione spirituale? E pur vero che tale vocazione non sempre si esperisce e spesso resta dormiente, a volte ammantata da maschere narcisistiche che nell’esaltare i poteri ed i voleri dell’ego portano la morte nella vita, ovvero ne annullano la vitalità animica, morale e amorosamente spirituale. Ma questa è un ‘altra storia: il narcisismo appartiene ai vivi e parafrasando Totò si potrebbe dire che “la morte è una livella”, non solo perché abbatte le ingiuste differenze e le iniquità della vita sociale, ma perché fa cadere anche le maschere narcisistiche del potere e dell’insensibilità verso l’amore e lo spirito. Il narcisismo potrebbe dunque intendersi come la nullificazione dello spirito vitale in nome del potere dell’Io, con la conseguente instabilità, ambivalenza, ambiguità e distruttività nella relazione amorosa.

Secondo Igor A. Caruso autore del libro:  La separazione degli amanti. Una fenomenologia della morte (1988) – l’essere abbandonati della persona amata può costituire un trauma ancora più intenso e grave del lutto allorché la perdita rende quasi impossibile una rieleborazione spirituale nella memoria. Mentre nel lutto la dimenticanza viene comunque riempita dalla commemorazione attraverso ritualità, ricorrenze, condivisione del ricordo, nella separazione degli amanti l’angoscia si esaspera per l’impossibilità di accettare l’oblio. L’amante deve morire dentro di noi, deve essere nullificato il sentimento del legame amoroso, e questo prevede anche la morte di se stessi nell’amante. Bisogna sopprimere l’amante abbandonico (che pure è ancora amato) nel proprio mondo interno, cancellarlo dalla memoria e sopportare che si venga uccisi nel mondo interno dell’amante, che potrebbe invece rivivificarsi amando qualcun altro. Non c’è più la possibilità di un aldilà come avviene nell’elaborazione spirituale del lutto, in una dimensione psichica interiore. Eppure anche il trauma abbandonico, la perdita dell’oggetto amato, può essere elaborata al cospetto di una vocazione psicospirituale della psiche e, secondo Caruso, è questa in definitiva la vera via di guarigione del trauma abbandonico.

Tutto ciò ci spinge a riflettere, in questi umili appunti  (data l’immensità degli argomenti, non possono essere che tali) su come e perché Eros e Thanatos, Amore e Morte, siano da sempre narrati insieme, nella poesia, nel mito, nella religione e nella nostra Anima-Psyche.

Narrazioni e poetiche sull’aldilà

Nei Campi Elisi omerici Ulisse incontra Anticlea, sua madre. Essa è solo un vapore, non è rimasto niente della sua presenza vitale, è un fantasma insensibile, incapace di ogni relazione coi viventi. Omero concepisce l’aldilà in modo antropomorfico, ma senza che vi possa essere ulteriore evoluzione. Eppure presume un aldilà eterno, per quanto inconsistente. Invece Dante, che attraverso Virgilio si ispira a Omero, fa il suo viaggio nell’aldilà dandogli un senso ultimo, come fosse un cammino, un’evoluzione ultraterrena.

Sono immaginazioni poetiche, ma per alcune persone si tratta anche di esperienze interne sensitive, medianiche, di conoscenza misterica e tuttavia intima e autentica. Loro sanno e sentono che non c’è il nulla, ma qualcosa. Noi umili mortali possiamo lasciarci ispirare, eppure proviamo il lutto per l’angoscia che ogni amore per i cari e per se stessi finisca nel nulla. L’angoscia del vuoto assoluto. Alcuni considerano invece che vi sia una qualche forma di altra vita. Questo anche perché ‘sentono’ e sognano i morti, e ne assimilano insegnamenti ed emozioni, in un modo diverso da quando erano in vita, a volte persino più forte, o carico di nuovi significati.

Sono nell’anima, oppure nell’inconscio i nostri cari che ci hanno lasciato? La realtà psichica esiste, oppure dobbiamo considerare che è irreale? Ma allora noi stessi siamo irreali, in quanto esseri psichici? Sta di fatto che da sempre c’è una spinta nella psiche alla conoscenza di ciò che viene dopo la vita e questo ha comportato una psichicizzazione dell’umano, parallelamente alla spinta dell’amore . Eros e Thanatos ci pongono al cospetto dell’invisibile, che nella sua irrealtà tuttavia esiste fortemente nel nostro vissuto, fino a diventare la questione centrale, che non può essere trattenuta neppure dagli imperativi logico-razionali più potenti.  Senza una qualche elaborazione dello psichismo dell’invisibile si entra nella nevrosi, come basilare conflitto coscienziale  tra materia e spirito, o nella psicosi, come annichilimento autistico nell’inerte ‘materia morta’ ,  oppure in una qualche fascinazione visionaria di tipo allucinatorio e maniacale.

Del resto se dopo la morte non c’è niente, perché bisognerebbe avere paura per qualcosa che non c’è? Eppure una visione scientista e razionalista ci convince che non c’è proprio niente, che non c’è l’aldilà, ma questo non ci tranquillizza, anzi ci turba moltissimo. In senso stoico dovremmo accettare l’inevitabilità della morte senza paura, ma senza per questo aderire all’idea contraddittoria che il niente in quanto tale possa esistere. Per Parmenide il non essere non è possibile, e per Eraclito, per quanto l’impermanenza sia la transitoria verità della realtà, tutto scorre e quindi tutto si trasforma, ma non accade che tutto,  semplicemente, sparisca.

L’immortalità e la memoria

L’immortalità resta comunque un diritto degli dei, dai quali perciò sono separati i mortali. Tuttavia la mortalità nel mondo antico e arcaico andava eternizzata con gli ipogei, le lapidi, le steli, le piramidi, le grandi opere tombali e in memoria – ovvero con quanto più di permanente poteva esistere come la pietra. Anche le cremazioni o il divoramento dei cadaveri da parte di belve (in certi riti anche dagli umani – vedi Freud, Totem e Tabù – divoramento dei padri per assorbirne lo spirito) serviva per redistribuire nella perenne trasformazione della ciclicità naturale l’anima dei morti. Le grandi narrazioni di eroi mitici, dei martiri, degli uomini illustri e degli amanti e dei militi ignoti vanno ad evocare nella psiche il senso dell’anima immortale, sia in una visione laica, sia religiosa. Ogni tradizione, ogni cultura si fonda sugli ancestri, sugli antenati. Per i romani questo fondamento era costitutivo non solo della civiltà e dell’Impero, ma anche della domus famigliare, secondo il culto dei lari, e dei doni votivi che rinnovavano il patto di continuità e di evoluzione tra i vivi e i morti.

Nel neoclassicisimo del Foscolo vi sono i semi di una romanticistica consapevolezza spirituale. Quantunque egli  fosse illuminista ed ateo – il valore de I Sepolcri consacra la vita umana alla onoranza commemorativa dei morti, dei progenitori, senza la quale non potremmo esserci, non solo in senso biologico, ma in senso etico, valoriale e spirituale. L’ ‘essere o non essere’ del Foscolo si fonda lapidario sulla memoria dei morti, la quale deve ravvivarsi su un altare perenne nel cuore della terra, come in quello dell’anima; altrimenti non è l’oltretomba ad essere il nulla, bensì noi stessi, ancorché in vita.

Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

(Ugo Foscolo, I sepolcri, 1807)

I sepolcri che inducono a pietà verso i resti dei morti, generano sentimenti ad un tempo di civiltà e di spiritualità. “Celeste è la corrispondenza d’amorosi sensi”, vuol dire che l’Amore si coniuga con l’eternità e ad una potenza sovrasensibile, dal momento che implica l’immaginazione sensuale dell’anima e dell’aldilà. Nel ricordo commosso dell’altro che non c’è, i nostri sensi sentono che c’è, ed è questo un rammemorarsi dell’Amore celeste e dello spirito vivente in noi. E quando ci troviamo al cospetto delle tombe di grandi personaggi dell’umanità il Foscolo ci dice che la nostra anima si evolve all’insegna di grandi ideali e di supreme speranze per un cammino giusto dell’umanità. Quei defunti ci ispirano a desiderare di poter proseguire il loro cammino, seppure con i nostri più umili mezzi. I morti onorati nei nostri cuori e nei segni concreti della memoria ci ispirano all’Amore celeste, in tutte le sue forme, e quindi alla consapevolezza della nostra essenza spiritualmente immortale. E questo dà pace, speranza e civiltà – e ci sprona a fare bene in vita, per vivere ancora dopo la morte nella memoria dei nostri cari.

Secondo Jung, la storia non dipende soltanto da una coscienza morale e sociale, ma da come una certa costellazione archetipica dell’inconscio collettivo si incarna nello Spirito del Tempo. Non è solo realtà immanente che condiziona l’umanità intera a seguire i suoi destini epocali.  La consapevolezza umana del dover morire, a seconda di come viene elaborata spiritualmente, determina il come proseguire nella storia. Nei termini di Jung, ogni vita individuale, a prescindere da quanto possa essere gloriosa o da comune mortale, riverbera spiritualmente nella memoria della psiche collettiva, e nell’Anima mundi dell’umanità intera. Ciascuno porterà nell’aldilà ciò che ha preso e ciò che vorrà prendere, in quanto gli è mancato nell’aldiquà. In vita l’Anima/Psyche individuale è una risposta interpretativa, unica e irripetibile, dell’inconscio collettivo – dopo la morte tornerà in esso per restituirgli un suo specifico contributo trasformativo. Sono discorsi troppo complessi affinché si possa tentare di riportarli attraverso appunti senza che possano apparire superficiali, pindarici e in definitiva macchiati di una hybris che pretenderebbe di dire tanto, ma che in senso logico-razionale riesce solo a dire ben poco. Ma io qui mi accontento di questo poco, e credo che chi vorrà potrà farlo suo e integrarlo come più sa e crede. Come ho detto all’inizio parlando di appunti e di spunti l’obiettivo di questo scritto è modesto, ma altresì preciso: qui non si vogliono asserire verità, bensì evocare fantasie e narrazioni, scientifiche e spirituali, su come le immaginazioni dell’aldilà ci rendano consapevoli del nostro psichismo che per sua natura ha un suo anelito spirituale trascendente.

Anima e corpo, prima, durante e dopo

L’anima nell’immaginazione e nel suo senso condiviso è qualcosa che non può morire, è insopprimibile, a meno che venga resa morente (ma giammai uccisa) da una concezione che considera l’essere umano come un puro aggregato biologico ‘che se la racconta’ sull’oggettività del tutto naturalistica di se stesso. La divisione tra anima e corpo, considera il primo mortale e la seconda immortale. Però fino a quando il corpo non muore l’anima dovrebbe essere viva anche nell’aldiquà. Secondo i Vangeli nell’aldilà l’anima preserverà una sua individualità, ma a patto che abbia partecipato al Regno di Dio quando era in vita. Ma quando alla fine dei tempi saranno giudicati i vivi e i morti, anche i corpi resusciteranno, se hanno conservato la scintilla divina in vita. Per Platone questa scintilla era il Daimon, una potenza spirituale ‘trasmigrante’ che orienta la vita di ciascuno, e che resta immortale (Hillman, in Il codice dell’anima, 1996, riprende la “metempsicosi” platonica). Secondo il Budda il corpo è il tabernacolo dello spirito vivente e quindi è anche da come è stato onorato nel corpo che potrà proseguire il suo viaggio dopo la morte. Resta comunque insopportabile l’idea che nonostante la perdita del corpo e la dissoluzione che ne consegue qualcosa non possa continuare a preservare una qualche forma di vita. Tuttavia c’è anche da chiedersi che cosa ci fosse potuto essere di noi stessi prima che fossimo nati. Dal punto di vista biologico ci poteva forse essere un progetto, o una serie di eventi genetici che preparavano la nostra venuta al mondo, ma in una modalità del tutto casuale. Catene di DNA che si susseguono da una vita all’altra, incarnandosi poi in ciascuno di noi. Siamo diversi nei connotati e nel corpo, ma a colpo d’occhio siamo certamente tutti riconoscibili come umani. Resta assai più difficile considerarci omologati relativamente alla nostra natura interiore. Le facoltà psichiche basilari – percezione, emotività, affettività, intelligenza, memoria, ecc. – seppure a diversi gradienti qualitativi e quantitativi, sono piuttosto simili in tutti gli individui. Ma se consideriamo il carattere di ciascuno, nella sua pienezza di sfumature e di profondità, gli individui risultano essere molto diversi tra di loro. In certe classificazioni caratteriologiche, ad orientamento scientifico (si pensi alle tipologie psicologiche di Jung, o del carattere in Reich e Lowen), gli esseri umani possono raggrupparsi in tipi e categorie. Oppure vi sono classificazioni fondate su saperi mistici, di ordine animico e metafisico, come per i segni zodiacali o nell’enneagramma. Eppure le differenze individuali sono così forti da poter dire che solo molto vagamente una persona può somigliare all’altra, mentre dal punto di vista fisico le somiglianze possono essere fortissime, fino alla condizione di sosia. Allora l’essenza individuale, unica e irripetibile, che c’è in ciascuno di noi si è determinata ex nihilo al momento della nascita, oppure deriva da qualcosa di precedente che si va incarnare alla nascita? In verità non sappiamo perché ciascuno di noi sia così assoluto? Cos’è che ci rende così diversi e al contempo tutti uguali? Sembrerebbe possibile ipotizzare che così come il corpo fisico nascendo si è costituito sulla base di catene genetiche pregresse – la natura organica materiale – così lo psichismo individuale si possa essere instillato nell’individuo costituendosi sulla base di catene psichiche pregresse – la natura psichica spirituale. Quindi così come il corpo fa ritorno alla natura organica materiale, così la psiche individuale dovrebbe fare ritorno alla natura psichica spirituale.

Veniamo dalla polvere, come dice la Genesi e torniamo polvere, ma durante la vita come sarebbe che questa polvere si è animata e ha preso una sua ‘natura individuale’? Un principio animante era pregresso alla nascita, oppure è solo un epifenomeno della mente, una sorta di illusione, per così dire, che i neuroni hanno la capacità di farci vivere, senza però essere stati informati da alcunché di pregresso? Se la psiche individuale viene dal niente essa tornerà nel niente. Però se veniamo dalla polvere e nella polvere ritorniamo, vuol dire che non veniamo e ritorniamo nel niente, in quanto la polvere è pur qualcosa. A quanto pare dunque il niente, in senso assoluto, sia come pre-vita e sia come post-mortem è una possibilità riservata solo all’anima, che però dovrebbe essere quindi l’unico campo fenomenico che nella sua interezza si sottrae alle leggi fisiche della causa e dell’effetto. Cioè il principio animico è solo un effetto del sistema nervoso vivente, ma mentre tutti i sistemi organici di una certa specie, come quella umana sono ben poco differenziati, la vita animica, con la sua unicità assoluta, sarebbe a questo punto un miracolo derivante dalla materia, la quale avrebbe la capacità di determinare qualcosa di immateriale e di assoluto. Tutto ciò appare piuttosto irrisolvibile e incommensurabile da un punto di vista logico-razionale, per quanto si voglia esaminare le cose secondo un qualche rigore scientifico. Tutto questo panegirico, se si mi si permette di sorridere di me stesso circa questi scarni appunti dinnanzi a temi così sconfinati, ci dovrebbe però servire a capire che la scienza non può spiegarci ogni cosa della psiche invisibile, né suo pregresso determinarsi nella vita, né del suo essere in vita, e neppure del suo proseguimento post-mortem. Allora si dirà che hanno ragione i mistici, i sensitivi e i religiosi? Semmai si può credere in loro, ma questo non vuol dire che abbiano ragione. Per Jung era però molto importante considerare un dato di fatto psichico, e cioè che le fantasie sull’invisibile sono un fenomeno essenziale della realtà psichica e che queste hanno una profonda presenza archetipica universale a riguardo dell’aldilà. Perché allora invece di fidarci totalmente della scienza, o della religione non proviamo ad avere fiducia in noi stessi, cioè a conoscere e ad esplorare come si esprime l’Anima/Psyche in noi, tra di noi, intorno a noi, e prima e dopo di noi?  Dato che Jung elaborava la sua psicologia in senso psicospirituale gli domandavano spesso cosa ne sapesse dell’aldilà – una volta rispose che quando sarebbe stato in punto di morire si sarebbe detto. “Adesso vediamo”. Chi vive con quest’apertura verso l’infinito e il non conoscibile vive meglio di chi si rifugia solo nelle certezze della scienza o nelle credenze della religione: meglio lasciarsi ispirare da entrambe e considerare la morte come un punto di arrivo, alla scoperta dell’infinito.

Trasmigrazioni, resurrezioni e reincarnazioni

Dice Jung:

“L’idea della rinascita è inseparabile da quella del karma. Il problema cruciale è se il karma di un uomo sia o no personale; se lo è allora il destino predeterminato con il quale un uomo entra nella vita rappresenta il compimento delle opere di vite precedenti e perciò esiste una continuità personale. Se  non è così, all’atto della nascita si assume un karma impersonale, e allora questo si incarna di nuovo senza che vi sia alcuna continuità personale.

Due volte i discepoli chiesero a Buddha se il karma dell’uomo fosse personale o no; ogni volta egli eluse la domanda e non esaminò la questione a fondo: saperlo egli disse, non avrebbe contribuito alla liberazione di se stessi dall’illusione dell’esistenza. Buddha riteneva molto più utile per i suoi discepoli meditare sulla catena del Nidâna, cioè sulla nascita, la vita, la vecchiaia, la morte, e sulla causa e l’effetto della sofferenza.

Non conosco risposta alla domanda se il karma che io vivo sia il risultato di mie vite passate, o se piuttosto il conseguimento dei miei antenati, la cui eredità si somma in me. Sono forse una combinazione delle vite dei miei antenati, e reincarno le loro vite? […]  Non lo so. Buddha lasciò aperta la questione, e presumo che egli stesso non ne conoscesse con certezza la risposta”.

(C.G. Jung, “La vita dopo la morte” in Sogni, ricordi riflessioni, 1961).

Si può dire che al disgregarsi del corpo, anche l’individualità si estingue, eppure ci si potrebbe ancora chiedere dove va a finire ciò che ci ha animato? Nel Vecchio Testamento i libri di Daniele e delle Ecclesiaste ci invitano a considerare l’immanenza della vita come esperienza che conduce alla trascendenza, ma a patto che riconosciamo la nostra natura come concepita dall’immortalità di Dio, il quale ci avrebbe creato immortali nell’anima – e quindi a sua somiglianza. Risposte univoche e certe non ce ne sono, ma non si può confondere la certezza con la verità. Ciò di cui possiamo essere certi non esaurisce tutto ciò che non possiamo sapere attraverso i nostri sensi e la nostra ragione, inevitabilmente delimitati dalle categorie del tempo e dello spazio.  E allora perché mai non dovrebbe essere lecito ascoltare cosa dice la nostra immaginazione e le narrazioni fantastiche e spirituali con le quali essa è da sempre correlata? Secondo certe narrazioni ad esempio, si crede che gli spiriti più evoluti diventino stelle, così come anche avviene nel firmamento dantesco dei beati. Non per tutte le anime l’eternità riserva lo stesso destino, così come rivelano le credenze sull’inferno, e poi quelle più compassionevoli, o ricattatorie se si vuole, sul più ‘moderno’ purgatorio. Dobbiamo essere buoni in vita se non vogliamo dannarci per l’eternità o espiare troppo a lungo, se una volta ammessi in purgatorio i vivi non pregano per donarci indulgenze. Saranno loro, i vivi, indulgenti con noi quando non ci saremo più? Come ci giudicheranno? Da questo dipenderà la nostra forma di esistenza psichica dentro di loro. Li tormenteremo e loro ci tormenteranno? Saremo per loro angeli o demoni? Dipenderà da loro, dalla loro compassione, dalla loro volontà di purificare in loro i nostri errori? Oppure dipenderà da noi, divenuti anime in cammino volte a ritrovare la conoscenza che abbiamo mancato, anche espiando i nostri errori? Jung come Dante crede che dopo la vita resti ancora molto da fare. Solo che Dante considera che il fare dell’inferno sia un’atroce coazione a ripetere, invece per Jung, in un certo senso, il purgatorio sarebbe una possibilità offerta a tutti e, in questo senso sembra muoversi anche la più recente teologia cristiana. Il celebre giornalista Eugenio Scalfari, ha recentemente chiesto a Papa Francesco dove vadano le “anime cattive” e in che modo siano punite. Secondo Scalfari, Papa Francesco avrebbe risposto così:

“ Non vengono punite, quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate, scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici”.

Dio essendo misericordioso non può infliggere una punizione eterna, però avrebbe il potere di nullificare, di far scomparire le anime cattive, giacché lui solo può sapere cosa sia la totalità e cosa sia il nulla. D’altra parte se l’inferno fosse la nullificazione sarebbe comunque angosciante e annichilente come lo horror vacui. Una punizione nichilistica ci sarebbe, ma non sappiamo se dopo questo annullamento non potesse esserci una seconda possibilità, giacché Dio è onnipotente e dal nulla potrebbe rigenerare il tutto. Questa rigenerazione, nella nostra immaginazione, dovrebbe poter avvenire comunque in una qualche similitudine con l’esperienza della vita e quindi secondo coordinate spaziali e temporali che, per quanto indeterminate all’insegna dell’infinito e dell’eternità, risultano comprensibili per il nostro intelletto. Ogni fantasia sull’aldilà viene in qualche modo antropomorfizzata, anche se in molte narrazioni l’anima potrebbe trasfigurarsi in luce, in vibrazione o in altra forma energetica che, per quanto astratta, risente sempre della fenomenologia dell’esistente esperita nella vita. Vi è comunque sempre una qualche idea di purificazione, di trasformazione o di espiazione rispetto alla natura psicocorporea, personale, interpersonale e collettiva che si è esperita nei fatti, nei pensieri, nei sentimenti  e nelle immaginazioni della vita.

Ma a prescindere  dalle credenze sull’aldilà come un tribunale, un penitenziario, una casa di cura o un paradiso – quest’ultimo in fondo noioso e melense come una felice pensione senza più passione alcuna – resta il fatto che le narrazioni sono simboliche, e cioè non intendono dirci quello che dicono, ma infondono in noi il senso del mistero. Ciò che emerge dall’inconscio e dai miti di ogni epoca è comunque che la morte corrisponde ad una rinascita, seppure in una dimensione che nel tempo della vita resta inconoscibile, se non attraverso un’apertura ad uno psichismo spirituale che non comporta necessariamente una prova effettuale su un piano di realtà, e neppure una qualche credenza mistica o religiosa. Quello che conta è il prendere atto, con umiltà, del manifestarsi spontaneo di immaginazioni, sogni e sentimenti sull’aldilà nella nostra vita psichica che è ‘pontefice’ tra l’aldilà e l’aldiqua.

Immaginamenti e ragionamenti sull’aldilà

Rinunciare al mistero come fosse qualcosa di impossibile potrebbe essere una facile scelta della Dea Ragione. Tuttavia se rifiutiamo ciò che non ci è possibile conoscere razionalmente diventiamo vittime della nostra stessa razionalità, la quale costituisce un pregiudizio in quanto esclude tutto ciò che essa non può capire logicamente. Ma la parola ‘mistero’ che etimologicamente vuol ciò che ‘non si può dire’, perché nei termini del logos è indicibile, e si può solo esperire nel silenzio dell’intelletto (secondo l’insegnamento di Agostino) o attraverso il suo trionfo spirituale (secondo Tommaso d’Aquino).

Nell’essenza della cristianità, Dio si fa uomo per mostrarci la resurrezione dalla morte, dal momento che i peccati possono essere espiati, e che quindi alla fine dell’intera umanità saranno giudicati i vivi e i morti. Espiarli vuol dire avere fede in lui, perché sacrificandosi per noi tutti sulla Croce, toglie tutti i peccati dal mondo. Tutto ciò per quanto appartenga al discorso religioso è comunque patrimonio dell’essere umano, seppure non credente, che vive nella dimensione psicospirituale cristiana. Ogni religione propone la sua dimensione psicospirituale che si infonde nella collettività e nell’individuo. Perciò ogni conato ed ogni affermazione di ateismo risente della condizione psicospirituale religiosa in cui si afferma. L’ateo nella cristianità avrà un ateismo diverso dall’ateo nell’islamismo, nell’induismo o nel buddismo. L’ateismo preserva sempre un fondo simbolico e valoriale dialettico con la religione che intende rifiutare. L’illuminismo che si è rivoltato contro il medievale oscurantismo cristiano, è pur tuttavia figlio di esso. Ecco allora che così come si avvicendano le domande e le risposte nella dimensione psicoculturale collettiva, avviene anche che in ciascun individuo vi sia un’intima concezione di come stanno le cose tra la realtà conoscibile e il mistero. Non è che si debba possedere particolare erudizione nel momento in cui, a riguardo dell’aldilà, ci si accorge di avere dubbi piuttosto che convinzioni più o meno assolute. Sta di fatto che tutti in qualche momento, o in qualche periodo della vita, ci chiediamo dove andremo a finire dopo di essa e dove sono andati a finire i nostri cari estinti. Qui come abbiamo detto più volte non ci sogniamo neppure di dare risposte, cionondimeno riteniamo psicologicamente corretto per la nostra salute psichica riflettere su queste domande di ordine trascendente, e non siamo d’accordo sul dover ammettere che in fondo si tratta solo di superstiziose sciocchezze.

Al tempo in cui Platone ragionava tra mithos e logos sulla transmigrazione delle anime, in oriente Budda profondeva i suoi insegnamenti all’umanità e parlava di reincarnazione. L’apparente felicitazione di potersi reincarnare, sfuggendo così all’impermanenza e al nulla, veniva capovolta come condanna del dover morire e rinascere nella ripetitiva ruota della sofferenza, cosicché la perfezione poteva essere raggiunta in un Nirvana: il paradisiaco nientificarsi, che si poteva esperire iniziaticamente nello svuotamento totale della mente per mezzo della meditazione e di altre pratiche disvelanti l’apparente illusoria pienezza del reale. Il nulla diventa allora la massima condizione spirituale a cui aspirare dopo numerose e purificanti morti e rinascite, e tuttavia neppure Budda ha detto che cosa il nulla sia, dal momento che nel dirlo avrebbe dovuto dire che il nulla era pur qualcosa, invece che lasciarlo presentire in quanto mistero, ovvero ciò che non si può dire. Dunque, sebbene nulla si possa dire sul nulla, e quindi né la religione, né la scienza ci possono dare certezze sull’aldilà, in senso positivo o negativo, in quanto espiante realtà altra o beatificante nullificazione della realtà, sta di fatto che la natura trascendente dell’anima umana è sempre tesa e protesa tra il limite e l’illimite, tra il finito e l’infinito, e quindi è pregna di trascendenti  immaginamenti sull’immortalità. E di ciò, come ha spiegato più volte Jung, la psicologia deve tenere conto, senza potersela cavare scotomizzando il mistero come superstizione, tentando balzi scientifici nei fascinosi termini quantici e dell’antimateria o di ogni altra ‘meraviglia razionale’ capace di dimostrare scientificamente che lo spirito esiste o non esiste.  E neppure pare sufficiente confortarsi con la sola verità di fede, scegliendo una confessione o l’altra, oppure elaborando complessi sincretismi spiritualistici, che poi ricadono sempre sotto l’egida dell’intelletto, o dell’emisfero sinistro (logico razionale). Ciò che invece può orientare ciascuno alla conoscenza di se stesso nella sua integrità, psicofisiologicamente relativa anche all’emisfero destro (arazionale, visionario e poetico) si esperisce secondo Hillman ridestando l’attenzione sul mondo immaginale, e quindi sulle fantasie mitiche e visionarie che percorrono i cangianti sentieri cromatici e visionari dell’anima.  Il senso che si incontra in se stessi, non può quindi eludere o edulcorare il senso delle grandi narrazioni che, per quanto sembrino essere decadute nella postmodernità in nome di un pensiero tecnocratico che fonda la vita solo sul concretismo utilitaristico, restano vivificanti per l’inconscio individuale e collettivo. L’aldilà dunque è dentro di noi per il fatto stesso che attraverso molteplici narrazioni possiamo averne immaginazioni e spinte ad interrogarci su di esso. Ma al contempo possiamo dire che noi stessi siamo partecipi di un aldilà che sta intorno a noi, sebbene si viva ancora nell’aldiquà, in quanto siamo psichicamente legati agli spiriti dei morti. Anime o spiriti? Questa è ancora un’altra questione che merita di essere esaminata a fondo. Per il momento possiamo considerare che nella visione più primitiva l’anima era dotazione della materia vivente, anche non umana (animismo), mentre lo spirito era sotto l’egida dell’alterità, e quindi di un’aldilà che si poneva al cospetto del divino e del supremo, del numinoso che induce paura e potenza, a seconda se gli spiriti precettori siano buoni o maligni.

Religione, scienza e mistero

Nella Parola del Signore, secondo i Vangeli di Cristo, i vivi resteranno tali anche dopo la morte, persino nella resurrezione dei corpi, allorché siano stati vivi al cospetto dell’amore divino, altrimenti sono stati già morti ancorché vivi. Pertanto la vita è considerabile tale solo se non si limita a esistere come aggregato biologico motivato dai suoi bisogni egoici, ma dal momento che si rende cosciente del suo provenire e del suo ritornare a Dio. Satana sfida Gesù ad usare i suoi poteri divini per trasformare i sassi in pane per potersene cibare, e quindi per pensare alle sue proprie necessità terrene, al suo ego che ha bisogno di soddisfare l’istinto base della fame. Ma Gesù come ben sappiamo diche che “non si vive di solo pane”, quindi la vita non è solo il ‘bios’. Nel mondo greco il bios inteso come energetica dell’organismo vivente destinata ad esaurirsi, ma come ci ricorda Kereny nel suo studio su Dioniso, la vita era anche la Zoe, cioè la capacità della vita di perpetuarsi cibandosi della morte, come fanno le piante e gli animali, e come facciamo noi umani. In tal senso morendo diamo vita alla vita. Quindi nella continuità vita-morte c’è una sorta di moto perpetuo che si fonda sulla elaborazione di ciò che invece si arresta per sempre.  Tuttavia, secondo Freud, dal momento che scopre la pulsione di morte, non dobbiamo avere troppa fiducia nel considerare la vita della natura come un’elaborazione perpetua, ad un certo momento la morte totale di tutto potrebbe sopraggiungere. Gli scienziati dell’Universo, quindi gli astrofisici, teorizzano che l’Universo così come si è formato, così potrebbe finire. Ma allora dopo cosa ci sarebbe? Ecco di nuovo il dilemma: qualcosa o niente. Ed ecco che a meno che non si voglia essere superficiali è ammettere che il niente esiste e quindi proprio per questo è pur sempre qualcosa, secondo un ricorsivo gioco linguistico che non porta a niente in senso logico e oggettivo, si è costretti a restare in bilico sull’abisso dell’inconoscibile. Se ignoriamo l’inconoscibile, considerando che è meglio occuparsi di cose concrete e basta, accettabili solo secondo la nostra ragione, resta il fatto che non è affatto detto che l’inconoscibile ignori noi e neppure che la nostra ragione resti integra. Con tutta evidenza, l’esperienza di ciascuno rispetto al suo campo vitale, individuale, relazionale, collettivo, può osservare che l’inconoscibile si manifesta in noi: nel nostro carattere innato, nel flusso di pensieri, emozioni e sentimenti, nelle vocazioni e nei sintomi, nelle fantasie e nei sogni. Possiamo adoperare qualsivoglia modello scientifico per spiegarci l’inconoscibile che è in noi e intorno a noi, ma a meno che non si voglia prepotentemente sottomettere se stessi e gli altri ad una hybris cieca e assolutistica, dobbiamo riconoscere che la nostra ragione ha un limite e che ciò che resta inconoscibile non può essere liquidato come qualcosa che non esiste. L’aldilà è dunque qualcosa che resta inconoscibile, un mistero, sia se vogliamo affidarci alla scienza, sia se vogliamo votarci ai mistici di ogni epoca e cultura. La posizione oggettiva è di restare nel dubbio, e quindi nell’umiltà del limite della nostra ragione. L’illuminismo, lo scientismo, il positivismo violano il limite della nostra ragione dal momento che lo sanciscono come valore di riferimento da espandere fino all’orizzonte irraggiungibile della verità assoluta, che non presume una qualche verità inconoscibile, ma che è solo, in via provvisoria non spiegabile, fino a quando la scienza lo spiegherà, altrimenti si tratta di cose che non esistono, perciò inspiegabili e fuorvianti, così come lo sarebbe la fantasia dell’aldilà. Va però osservato che la psicologia come scienza ha tra i suoi più fondamentali oggetti di studio proprio le fantasie di qualunque tipo, e quindi espellere la fantasia più misteriosa, assoluta e universale, come quella sull’aldilà, vuol dire dover rinunciare alla psicologia, o piegarla ad una concezione psicobiomeccanica dell’umano. D’altra parte la psicologia non solo ha come oggetto principe la fantasia, ma indaga su ciò che ogni artista, ogni innamorato, ogni idealista e pure ogni persona che sogna nel suo intimo sa, e cioè che la fantasia pur essendo nella sua natura irrealistica e inconoscibile ci serve per conoscere e realizzare la realtà stessa, parimenti al nostro intelletto, ma su alcune vitali questioni esistenziali ancor di più. D’altra parte, come ha detto Albert Einstein:

“Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente è un miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo.”

Se si sceglie la possibilità che tutto sia miracolo, non significa che con ciò si sia scelta la possibilità di sapere tutto, anzi, proprio il contrario, e cioè che non si può davvero sapere totalmente un bel niente (come invece pretenderebbe di arrivare ad ottenere la sola ragione – l’emisfero sinistro) – ma il saggio, secondo Socrate, era proprio colui che “sapeva di non sapere”, e questa secondo questi appunti ci sembra la posizione più corretta da prendere verso l’aldilà, per motivi che qui consideriamo innanzitutto in termini psicologici.

L’aldilà e la funzione trascendente nell’aldiqua

Tutte lunghe osservazioni fin qui proposte (nonostante si tratti di appunti), e ne occorrerebbero altre di ben maggiore portata in qualità e quantità, ci servono – ricordiamolo – solo per meglio considerare come l’aldilà, inteso in quanto luogo o non luogo dei morti, abbia un valore essenziale nella natura psichica del nostro essere. Jung, forse più di ogni altro si è posto il problema dell’aldilà nell’inconscio individuale e collettivo e parimenti del suo influsso archetipico ed energetico nell’esperienza della vita. Abbiamo già fatto cenno come il suo quasi litigioso confronto con Freud si concentrò sulla concezione della libido come energia psicospirituale e non solo sessuale. L’istinto umano non è come quello animale, ma è proteso alla trascendenza, perciò, nel bene e nel male,  siamo esseri sentimentali e non solo sessuali.

Per Freud la libido è un’energia legata alla pulsione sessuale, quindi al bios della natura umana che, per quanto differenziato e complesso, resta organicamente organizzato sul fisicalismo, cioè sul sistema nervoso e sulle necessita di autoconservazione e riproduzione dell’animalità umana; mentre per Jung la psiche non poteva essere riferita solo al biologismo basato sulla sessualità e le pulsioni primarie, ma sulla sua capacità di evolversi attraverso funzioni superiori di ordine trascendente (la “funzione trascendente” appunto). In tal senso nella psiche umana vi è un ‘naturale istinto spirituale’ che riguarda pure l’animalità, ma la trascende nell’ ‘anima’. Secondo Jung siamo esseri spirituali per natura, e quanto meno ce ne rendiamo conto quanto più le nevrosi e le sintomatologie psichiche ci condizionano, ci feriscono e ci inducono a ferire (ritorna quindi la massima: ‘non si vive di solo pane’). La concezione dell’aldilà con la sua potente evocazione spirituale, e il suo trascendimento di una presenza puramente inquadrabile nello spazio e nel tempo, ci ha reso esseri psicospirituali, capaci di orientare il nostro intelletto in una direzione che comporta la messa in comune di sentimenti e valori che non possono essere esaminati solo attraverso logiche, per quanto giuste, fondate su categorizzazione cartesiane di netta separazione tra materia e spirito. Nel nostro psichismo ‘olistico’ i confini tra materia e spirito sono alquanto osmosici, aperti, connessi. Certamente per determinate operazioni e realizzazioni scientifiche dobbiamo riuscire a separare materia e spirito, ma questo deve essere un esercizio effettuato con coscienza consapevole e rispetto della vita umana. Altrimenti tutti vediamo come una scienza senza spirito conduce ad un narcisistico senso di onnipotenza, provocando involuzioni e disumanizzazioni. Ciò è da tenere conto nella relazione terapeutica, che in molte circostanze comporta una responsabilità psicospirituale.

Siamo tutti mortali, e, dovremo condividere l’aldilà senza più essere affetti dalla voluttà egoica di un Io divenuto un Dio senz’anima. L’aldilà è una fantasia, siamo d’accordo, ma non abbiamo nulla per sapere fino a che punto una fantasia sia niente, solo perché non appaia come una realtà immanente.  Nello psichismo, e quindi nel cuore stesso della vita umana, individuale e collettiva,  accade continuamente che una fantasia possa essere più realista del Re e se non rispettiamo questo suo regno ne paghiamo le conseguenze.  Di certo sappiamo che l’aldilà è una fantasia fondativa essenziale che ha consentito l’evolvere della realtà umana e, in negativo o in positivo, a favorito l’evolvere della ragione stessa e persino della scienza. Non è uccidendo la fantasia che la scienza possa evolvere, può invece avvenire più facilmente quello che l’escatologia imminente della possibile morte del pianeta e dell’umanità rende ad ogni istante più reale, e cioè che la fantasia anziché restare uccisa si impossessi della ragione e della scienza e ci conduca all’atodistruzione totale.  L’apocalisse come morte dell’umanità è da epoche bibliche una fantasia eccedente dell’ira di Dio, ora però questa fantasia si è fatta spaventosamente reale. Quale aldilà potrebbe esserci senza l’esistenza di un’aldiquà? Ma nel contempo dobbiamo osservare come l’uccisione di ogni fantasia sull’aldilà può portare alla fine dell’aldiquà.

Nelle ispirazioni della nostra epoca post-positivistica osserviamo il risvegliarsi di pensieri e idealità spirituali. Quando c’è una carenza nella natura umana si sviluppano forme di compensazione, ma dipende dalla nostra intelligenza valorizzarle.

Dobbiamo apprendere in modo nuovo l’insegnamento delle tradizioni di tutti i tempi e i luoghi del mondo.  i culti e i riti apotropaici e di propiziazione, che presumono una coniuncto tra un aldilà un aldiquà, ci insegnano che la ‘funzione trascendente’ è fondamentale per non correre il rischio di essere fagocitati dalla disumanizzazione del mondo. Una più umana coscienza della morte sorretta dalla fantasia dell’aldilà, ci fa comprendere che, per essere vivi, per non morire da viventi nell’aldiqua, abbiamo bisogno di spirito, e questo non vuol dire essere per forza credenti, si può essere anche atei, ma senza per questo abbandonarsi alla falsa credenza del nulla come certezza, cosa che anche con la massimo ratio non può essere dimostrata.

Perciò abbiamo bisogno di elaborare e onorare una qualche fantasia dell’aldilà per restare vivi e umani nell’aldiqua. In questa ‘ragionevole fantasia di eternità, la morte si abbraccia all’amore e alla compassione, perciò Eros e Thanatos si accompagnano e si scontrano nei sogni, negli incubi, nei sentimenti e nelle preghiere. Anche l’amore come l’aldilà è trascendente. Così amiamo e sentiamo di essere amati dai nostri morti, e li riamiamo ovunque essi siano, perché da qualche parte ci sono e là li raggiungeremo.