Madre natura è spontanea e faconda, ma è anche altrettanto spietata ‘come la verità’, e quindi, pur senza diventare terribile può esprimere un’aggressività felina, come è tipico nei mammiferi carnivori, i quali fanno coesistere crudeltà e istinto materno (nel quale non vi è soltanto una vocazione protettiva verso la prole, ma anche un naturale senso di repulsa che si esacerba entro certe condizioni sfavorevoli).

Se questa aggressività naturale nella donna madre non viene compresa, e non trova un’armonizzazione spirituale capace di riconoscerla, di integrarla può diventare la causa primaria delle famigerate ipo o iperdepressioni post-partum. Il mito della madre che deve essere per forza felice di esserlo, e che non permette di manifestare ansie, dubbi, contrasti sentendosi comprese ed accettate può diventare un ‘complesso inconscio’ devastante nella donna incinta, la quale si percepisce in conflitto tra desiderio e rifiuto della maternità, e quindi in preda ad uno straziante senso di colpa, che gli altri, la cultura, la morale, la religione, e tutto ciò che dovrebbe dare sostegno potrebbe addirittura appesantire fino all’estrema condanna. In tale situazione una donna può sentire di dover stare in silenzio e persino di doversi mostrare serena quando non lo è.

Spesso le donne portano avanti la gravidanza celando eroicamente il naturale conflitto che le pervade, dato da una forte sensazione di contrasto alla gravidanza stessa – che pure è desiderata – sensazione emotiva che resta inespressa e dalla quale può svilupparsi un logorante senso di colpa. In tale condizione, dopo il parto, può cadere in una depressione dovuta al senso di colpa per il conflitto interno sopportato senza la comprensione di alcuno ed, anzi, sotto la minaccia che i suoi pensieri ostili alla gravidanza fossero ‘scoperti’ ‘giudicati’ e ‘condannati’, dagli altri o anche da forze e immaginazioni divine.

Parto rituale secondo gli Indios  Huicholes  del Messico Il padre (sopra) ha i testicoli legati ad una corda che la partoriente può tirare per condividere terapeuticamente il dolore.

Parto rituale secondo gli Indios Huicholes del Messico Il padre (sopra) ha i testicoli legati ad una corda che la partoriente può tirare per condividere terapeuticamente il dolore.

Secondo la micropsicoanalisi di Silvio Fanti, (1994:191 e seg.) la relazione tra il feto e la madre, sin dai primissimi giorni di fecondazione dell’ovulo consiste in una guerra psicobiologica ove entrambi combattono per la vita e per la morte, giacché l’embrione sopravvive attraverso un’invasione parassitaria cannibalica del corpo materno, che da alcuni studiosi di immunologia gravidica è paragonabile al “tumore maligno”, laddove l’ambiente uterino della madre reagisce non solo cercando di accettarlo, ma anche cercando di annientarlo e di rigettarlo. In termini micropsiconalitici, che indagano sulla realtà psicobiologica umana, Silvio Fanti osserva che “le prime reazioni della madre per il suo bambino sono tentativi di rigetto”. Se questo è un aspetto della spietata legge di natura che ha una sua eco psichica nella madre, allora è comprensibile come la cultura abbia dovuto generare un mito della madre compensatorio, che, ad esempio, nella figura di Maria giunge ad annientare e a negare ogni pulsione aggressiva e sessuale della donna. Tale negazione, che causa conflitti e paure nella donna, se non viene compresa, elaborata e sanata può essere concausa ‘archetipica’ di diversi complessi femminili, ed in particolare di quelli legati alla maternità, con esiti talvolta tragici, che vanno dalla depressione post-partum all’infanticidio. Ma senza arrivare a ciò, molti disturbi e quadri di gravidanze sofferte, presentano un conflitto psicologico interno alla donna che non viene capito nemmeno dalle persone più vicine, e ciò può gettare in uno stato di angosciante solitudine.

A ciò poi possono aggiungersi anche difficoltà e fattori disturbanti esterni alla donna, che esacerbano ulteriormente il suo conflitto interno. Per quanto riguarda il conflitto interno del quale stiamo parlando esso, in sintesi, consiste in un’emergere involontario di fantasie, sentimenti e pensieri di rifiuto della gravidanza e della situazione nella quale si è verificata, nonostante in termini coscienziali la si sia accettata e la si voglia portare a compimento. Ebbene è importante che una donna abbia possibilità di esprimere tale conflitto e che venga accolto in maniera non giudicante e colpevolizzante, fino a comprendere che la sua aggressività interna verso il nascituro che ha in ventre ed il contesto relazionale è relativamente normale.
Sono questioni che qui possono essere solo sfiorate, ma che, possono essere osservate per non cadere nelle trappole della rigidità del mito materno ad oltranza, che non consente di  deresponsabilizzare e decolpevolizzare la naturale aggressività femminile, anche in quanto madre.

La religiosità monoteista e patriarcale rinnega e demonizza l’istintualità femminile che ha in sé anche la naturale negazione della donna ad identificarsi sempre e comunque e soavemente, nel ruolo di partoriente. La naturale esigenza di rifiutare la gravidanza con un’ efficace contraccezione o di volerla interrompere, comporta oltre ad un’efferata demonizzazione, anche l’esaltazione di miti e narrazioni che inneggiano alla maternità come condizione nobilitante da sopportare armoniosamente fino a negare ogni frustrazione, sofferenza e contraddizione. Queste mitologie e religiosità che rinnegano il femminile ‘rinnegato’, ed esaltano la figura della madre ad ogni costo (talvolta anche a costo di morire) consistono in un annullamento della donna come persona avente la possibilità di decidere sulla sua vita e sul suo corpo. Ciò spinge ad infelicità, follia, autodistruttività e distruttività, nonché al fenomeno della depressione post-partum.

  La negazione della donna come persona avente il diritto di scegliere liberamente sulla sua vita psichica e biologica si esprime anche con una cultura maschilista-patriarcale che mira ad annullare la naturale aggressività femminile e ad esaltarne la perenne dolcezza. L’aggressività, quando è accettata nei suoi limiti naturali e funzionali, non è un male, come ha spiegato Konrad Lorenz (1963), e l’essere umano, attraverso la cultura deve correttamente modularla ed orientarla, invece che tentare soltanto di reprimerla a favore di altri tipi di aggressività – in particolare quella maschile su quella femminile. Dunque la regolazione dell’aggressività nella specie umana è condizionata in termini culturali, viene repressa, ritualizzata, esacerbata a seconda della dimensione culturale.

La psicoterapeuta Marina Valcarenghi esamina il tema dell’aggressività al femminile evidenziando di come questa subisca un forte condizionamento psicoculturale rendendo le donne “ipoagressive o iperagressive per compensazione (Valcarenghi, 2003: 3). Sembra però propensa a considerare che in molte donne vi sia un deficit dell’aggressività (piuttosto che un eccesso da accumulo inespresso) che va elaborato e riequilibrato. D’altra parte vi può essere anche un eccesso di aggressività, che si traduce in rabbia repressa, e in agiti che esprimono l’aggressività femminile con atteggiamenti e comportamenti di tipo narcisistico, subdoli, manipolatori e persino di carattere antisociale.

In tal senso l’aggressività repressa diviene aggressività occulta e negativa, in quanto non viene regolata psicoculturalmente in modo creativo, generativo, vitale ma in modo distruttivo, regressivo e mortifero. L’aggressività dei più forti, dei padroni e dei maschi è lecita e spavalda, quella delle donne è contro natura e va annullata oppure va impiegata a fini seduttivi: la donna felina, graffiante, mistress…

Vi è dunque molto da fare per una più armonizzata relazione tra i sessi, non soltanto sul piano dei diritti e delle opportunità, ma in termini psicoculturali, al fine di ripristinare il valore della sapienzialità e della intima libertà del femminile.

https://www.albedoimagination.com/2013/04/medea-di-pasolini-tragedia-psicomitologica-della-famiglia-e-della-coppia/

https://www.albedoimagination.com/2013/04/medea-di-pasolini-tragedia-psicomitologica-della-famiglia-e-della-coppia/

Se Medea l’infanticida avesse mantenuto il potere e la sapienza che aveva prima di conoscere Giasone, la sua aggressività non sarebbe stata agita in modo reattivo e autodistruttivo, ma in modo creativo, preventivo e compensatorio. Con ciò si vuol far comprendere di come in una dimensione di subalternità, la naturale aggressività femminile non solo viene repressa, ma viene spesso incanalata verso  comportamenti e stati d’animo  disfunzionali, autolesivi, svalorizzanti e colpevolizzanti tra i quali è ascrivibile anche la depressione post-partum.

httpv://www.youtube.com/watch?v=ubjEO25N3dc